La recensione di Lubo, presentato in Concorso al Festival di Venezia 2023
Lubo di Giorgio Diritti è un film dall’intento chiaro: raccontare una pagina non troppo nota della Storia recente, ovvero la sistematica operazione di supposta “purificazione etnica” compiuta dalla Svizzera per circa cinquant’anni (dal 1926 al 1973) nei confronti del popolo nomade e realizzata attraverso l’organizzazione statale Kinder der Landstrasse (l’Opera “Bambini della strada”), la quale sottraeva bambini nomadi alle loro famiglie per poi disperderli in Istituti o riassegnarli a privati cittadini.
Tale è il destino che in Lubo tocca ai tre figli di Lubo Moser (Franz Rogowski), un artista di strada Jenisch che da quando viene arruolato nell’esercito elvetico nel 1939 seguiamo nel suo lungo percorso di tentato ricongiungimento familiare, in quella che diventa un’esplorazione sotto falsa identità e dagli intenti ambigui della società elvetica del tempo.
Liberamente tratto dal romanzo di Mario Cavatore
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