Oldboy, la recensione

Spike Lee riscrive il thriller cult di Park Chan-wook e crea un'opera in grado di affrancarsi dal peso del rifacimento...

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Quando, nel 2004, Park Chan-wook presentò a Cannes il suo Oldboy, sanguinosa odissea di vendetta di un uomo rinchiuso in una stanza per vent'anni senza apparente motivo, lo scroscio di applausi probabilmente lo si poteva sentire fin nella sua patria coreana. Quentin Tarantino lo definì "il film che avrei voluto fare", e il Premio Speciale della Giuria consacrò Park al rango di autore con la A maiuscola.

Il 2004 non è molto lontano, e Oldboy è un film diventato troppo di culto perché il remake di Spike Lee in uscita a breve nelle sale di tutto il mondo non sollevasse polemiche sin dallo stato larvale. Polemiche che ruotano attorno al sempiterno dubbio: a cosa serve raccontare di nuovo una storia già egregiamente narrata da qualcun altro?

Certo, se dovessimo tenere anche in minima considerazione l'eventuale inutilità dei remake, metà del patrimonio cinematografico mondiale andrebbe a farsi benedire; e non necessariamente la metà peggiore. Pertanto, la rivisitazione di Lee diventa legittima nel momento stesso in cui accettiamo la legittimità dell'operazione remake: ha diritto di esistere semplicemente perché è un film diverso dal precedente, molto più di quanto non appaia a una prima occhiata.

Innanzitutto, lungi dallo scimmiottare la lentezza estenuante della grammatica cinematografica di Park, Lee si nasconde dietro la macchina da presa, evitando qualunque prepotente ingerenza. Non che il film sia diretto con mano sciatta, anzi: semplicemente, non trafigge lo sguardo dello spettatore con uno stile inconfondibile, mantenendosi sobriamente al servizio di una storia già di per sé eccessiva e iconica. Encomiabile, tuttavia, lo splendido piano sequenza di Joe che si fa strada tra un folto gruppo di aggressori a colpi di arti marziali. In generale, l'estetica del film di Lee rimane comunque piuttosto tradizionale, non costituendo il punto di forza dell'opera.

Memorabile l'interpretazione di Josh Brolin, in grado di alternare la cupa disperazione e la sete di vendetta di Joe con vivide pennellate di humour macabro; e tanto di cappello a Elizabeth Olsen che, nei panni della giovane e tormentata Marie, accompagna il protagonista nella sua indagine solitaria alla ricerca del proprio misterioso aguzzino. L'alchimia tra i due attori è convincente, e supporta un'evoluzione del loro rapporto forse più approfondita e verosimile di quanto non fosse nel film di Park.

Ma è nel finale che la dicotomia tra il precedente coreano e il remake di Lee si palesa: laddove il film originale lasciava volutamente un alone di incertezza e sospensione sull'epilogo della vicenda, operando una scelta di campo inquietantemente amorale, questo rifacimento si prende la responsabilità di una conclusione chiara e definita, velata di etica cristiana e in grado di far spiccare al protagonista un salto ben più alto di quello compiuto dieci anni fa. A Lee non importa sconvolgere il pubblico con una prospettiva finale disturbante e innaturale: non gli importa perché non è funzionale alla costruzione del ritratto del suo Joe, e che grazie a questa inversione di rotta nelle ultime scene si ritrova ad aver tracciato una parabola ascendente infinitamente più ampia del protagonista del film di Park.

A chi dirà che questo Oldboy non aggiunge nulla al film originale, si può solo consigliare di riguardare attentamente l'ultima mezz'ora: è lì che risiede l'anima vera e pulsante di quest'operazione di rifacimento e, sì, di rilettura, tutta volta a dimostrare come la sopravvivenza all'orrore e al rimorso non passi necessariamente attraverso l'oblio. Perché solo chi non dimentica può davvero ricominciare.

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