Rhino, la recensione | Venezia 78

Rhino di Oleh Sentsov inizia con un piano sequenza da capogiro. Senza apparenti stacchi di montaggio la macchina da presa gira per le stanze di una modesta casa ucraina degli anni Novanta, raccontando con estrema sintesi attraverso salti temporali e scenette simboliche diversi anni della storia di una famiglia. Tutto molto bello, peccato che dopo questo slancio iniziale si assesti invece su un linguaggio totalmente diverso e nel voler raccontare la travagliata parabola criminale di un giovane (detto appunto “rinoceronte” per un bernoccolo che ha sulla fronte) non riesca mai a smarcarsi dalla banalità.

La banalità di Rhino non è però tanto quella registica. La regia infatti è invisibile, non si mostra mai in modo lampante (e di per sé non è un male, anzi è comunque una qualità che bisogna saper ottenere). È invece la storia in sé, il modo in cui pretende di emozionare e di creare empatia, ad essere di un qualunquismo insapore. Rhino è la più classica de...