La recensione di Stone Turtle, in anteprima alla 75 esima edizione del festival di Locarno

C’è da giurare che la storia a cui stiamo assistendo è una intimista, un po’ romantica e molto socialmente consapevole. Non è difficile capirlo perché Stone Turtle fa di tutto per dirci che è come altri film già visti. Una donna che vive con la figlia su un’isola della Malesia, che torna periodicamente nella città per questioni burocratiche che non vanno bene e che entra in contatto con un esperto di tartarughe arrivato sull’isola e in cerca di indicazioni. Lui fraternizza anche con la figlia di lei. Tutto molto delicato. Tutto molto rarefatto. Passeggiate sulla spiaggia e volti popolari. Almeno fino a che lei non dà appositamente da mangiare a lui un riccio mortalmente velenoso e lui vomitando sangue non risponda colpendola fortissimo con la scorza piena di aculei del riccio, per poi finire a reciproche coltellate in pancia. 

Sono passati 20 minuti e Stone Turtle proprio non è il solito film. Almeno non soltanto. Perché Ming Jin Woo infila in questa storia piena di colpi di scena e di ripartenze anche un filo rosso potentissimo che riguarda i miti. Miti del folklore locale, miti della Marvel e miti che ci costruiamo da soli. Idee molto alte, ispirazioni molto sofisticate ma anche Ricomincio da capo di Harold Ramis.

In questo giorno della marmotta pieno di molti incredibili modi di uccidere fantasiosi, la grande idea è che invece che avere una protagonista che ad ogni iterazione della stessa giornata impara qualcosa di nuovo (come faceva Bill Murray) siamo noi che ogni volta impariamo un antefatto che cambia completamente il ruolo dei coinvolti e ci fa capire cosa stia succedendo davvero, come dietro questa prima patina da cinema d’autore con poche idee si nasconda un film di genere (E d’autore) pieno di idee. Invece del meccanismo molto americano di fallimento, nuovo tentativo, fallimento e nuovo tentativo fino al successo, c’è semmai un’incredibile riflessione (di nuovo, molto tipica e folkloristica) sulla futilità della vendetta e di una vita passata badando ad un unico obiettivo.

Arriva così il terzo strato di questo film che sembra averne per tutti: è un film di vendetta nel quale la vendetta è un atto futile. Vendetta alimentata da fantasmi, come fossimo in un film di Apichatpong Weerasethakul, vendetta che la protagonista sembra quasi obbligata a portare avanti ma che è sempre meno significativa più informazioni acquisiamo.

Quel che però fa fare a Stone Turtle il salto in avanti è come Ming Jin Woo faccia uno degli usi migliori possibili di un budget palesemente ristrettissimo, sfruttando al massimo quel che il cinema sa fare con pochi elementi. Ad esempio usa un vestito rosso, sempre uguale, per caratterizzare la determinazione della protagonista, mette in scena dei fantasmi senza nessun effetto ma con una recitazione ieratica che rende la loro presenza ancora più incombente, sfrutta una colonna sonora che aiuta lo spettatore a capire il genere o ancora trova in alcuni piani d’ascolto (eccezionale quello finale dell’impiegato che timbra) tutto il senso di una storia che dimostra ancora una volta come la frontiera della mescolanza tra cinema di genere e d’autore, i mix più creativi e il pensiero più divergente oggi sia ancora nel sud est asiatico

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