Alice nel paese delle meraviglie: da 70 anni è un allenamento per la fantasia dei bambini

Walt Disney cercava da tempo di adattare la fantasia di Lewis Carroll in un film. Nel 1923, da apprendista presso lo studio Laug-o-Gram, lavorò alla produzione di un mediometraggio su Alice nel paese delle meraviglie che fondeva in maniera avanguardista il live action con il disegno animato. Non arrivò mai al pubblico per via di problemi finanziari dello studio. Nel 1933 aveva ancora il desiderio di completare un lungometraggio, questa volta con attori in carne ossa e strettamente basato sui libri. Progetto poi accantonato per Biancaneve e i sette nani. Il successo di quest’ultimo gli permise finalmente di acquistare i diritti nel 1938 completando in un anno le concept art, alvo poi accantonarle in favore di altri adattamenti. 

Aldous Huxley nel 1945 scrisse una versione cinematografica molto fedele a quella di Carroll poi ulteriormente rimaneggiata così tanto… che è finita nel nulla. A quel punto Walt Disney capisce che l’unico modo per concretizzare le sue ambizioni è produrre un film completamente disegnato e nel 1951 porta al cinema l’Alice nel paese delle meraviglie che ben conosciamo.

Il suo progetto dei sogni, ma anche uno degli incontri più naturali tra la letteratura e le infinite potenzialità dell’animazione. 

Non una trasposizione fedele, ma un’operazione che ne cattura il cuore per ingigantirlo in uno straordinario omaggio alla fantasia. Le forme degli ambienti del paese delle meraviglie duettano tra di loro come in un concerto jazz, intrecciandosi con umorismo e una carica allucinogena che distrugge ogni limite convenzionale. Là dove Carroll si sbizzarriva con le parole, Disney lo fa con le immagini fondendo suggestioni dall’espressionismo tedesco (le linee spezzate e le prospettive vertiginose) con una grande dose di surrealismo e di sperimentazione da videoarte.

Alice nel paese delle meraviglie si muove come un cortometraggio allungato unendo tante piccole storie una con l’altra. Questo ritmo permette un continuo e rapidissimo cambio di scenari e situazioni. Diventa così magnetico per i piccoli, che possono distrarsi e ritornare a guardare ricevendo sempre nuovi stimoli, e per gli adulti che ne ammirano la perizia tecnica. I tre registi Luske, Geronimi e Jackson si incollano ad Alice le impongono un ritmo frenetico come in un flusso di coscienza.

Il nonsense e il ribaltamento logico non sono però solo un esercizio di stile arido. Sono la forma che diventa contenuto, e viceversa. Le geometrie che si uniscono diventando qualcosa d’altro (come le porte che aprono su labirinti, le lacrime che diventano acqua e gli specchi volti) sono il messaggio che guida tutta la produzione di Walt Disney: il limite è una cosa di esterno alla soggettività. Dentro di noi invece c’è un infinito cosmo di possibilità.

Per questo il libro di Alice nel paese delle meraviglie è un trattato di filosofia e comunicazione, mentre l’adattamento a cartoni animati è una palestra per la fantasia. Un compito meno ambizioso, ma che lo rende un perfetto punto di ingresso verso la settima arte. Come nelle fiabe questa principessa, già all’epoca fuori dagli schemi, supera una soglia. Lo fa nel basso, entrando nella terra senza alcuna eleganza, salvo ritrovarla nel momento di planare verso il fantastico. Arrivata a terra scopre le possibilità infinite che le si parano davanti, molte delle quali allusive e subliminali. Lontana da una patria normativa, fatta di aspettative e compiti da assolvere, il paese delle meraviglie è improvvisazione del ribaltamento continuo.

 

Alice nel paese delle meraviglie

 

Un meccanismo irresistibile per i bambini, che riveste il film di una continua rottura dell’immedesimazione. Si entra in dialogo con lo spettatore senza però rompere la quarta parete! I continui indovinelli e i giochi di parole rendono Alice nel paese delle meraviglie un parco divertimenti audiovisivo. Si crea per i bambini uno spazio sicuro, un foglio bianco, in cui sperimentare la fantasia senza filtro alcuno. L’aspetto onirico dell’intera storia è la condizione con cui anche noi, nel mondo reale, possiamo sperimentare lo stato di libertà della protagonista. Non a caso Matrix, tra conigli bianchi e pieghe della realtà, ha la sua struttura portante proprio nell’opera di Carroll.

Lilly e Lana Wachowsky danno a Neo, una “sandbox” per conoscersi e apprendere scoprendo nuove possibilità del suo corpo e dell’esistente che lo circonda. Alice lo fa ritrovandosi  costantemente in fuga, inseguita da personaggi\oggetti che, proprio grazie al continuo ribaltamento dell’esistenza, non riescono mai ad essere buoni. Anzi, il paese delle meraviglie è pieno di villain talmente esagerati che la stessa Alice li guarda con un po’ di sufficienza nelle loro bizzarrie.

Però, a 70 anni dalla sua prima proiezione, il film è ancora pedagogicamente fondamentale. Come dicevamo, fornisce tutti gli strumenti “ginnici” e imposta un programma di allenamento per l’immaginazione. Attraverso la narrazione ludica, il gioco che pervade le prove che lei deve superare, i bambini fanno esperienza concretamente dell’infinita possibilità della loro mente. K. Chukovsky, nel saggio Il senso dei versi senza senso, si sofferma sul gioco letterale delle filastrocche e dei nonsensi. Importantissimi per lo sviluppo dei piccoli e pervasivi nel film (oltre ovviamente al libro). Basta pensare al Brucaliffo che forma parole e le compone come un poeta, o i giochi sonori dello Stregatto. 

Noi conosciamo la realtà per gradi. Prima apprendiamo che le cose sono così come appaiono. Un verso di un animale è attribuito a lui come “carta di identità”. Poi però, dopo avere appreso le regole dell’esistente, il bambino si diverte a capovolgere i concetti. Diventa padrone della materia, proprio come Alice che sogna un mondo alla rovescia. Associa quindi per gioco concezioni diverse: fa miagolare un cane, crea gatti a forma di luna… Insomma, prende possesso della sua realtà immaginifica e si scopre attivo creatore.

Quello che il mondo adulto norma come un errore, in Alice nel paese delle meraviglie è la ragione stessa dell’essere. Tutti i cattivi non sono sbagliati, sono unici e bizzarri sì, ma sono perfettamente integrati nel meccanismo inventato dalla mente della ragazzina. Sono le figure della realtà estrapolate in un piccolo attimo (ad esempio l’essere in ritardo o il festeggiare il compleanno) esteso a caratteristica perennemente portante. 

Alice gioca con la sua fantasia e così chi guarda. Come durante un’attività ludica si sovrappongono due tempi diversi: quello percepito dai partecipanti e quello enunciato dall’orologio. Sovrappone una realtà diversa proprio perché le regole che delimitano la partita sono diverse da quelle dello spazio e tempo oggettivo. Nel gioco si esce dalla vita ordinaria per entrare in un tempo straordinario.

È chiaro allora perché Walt Disney ha voluto così a lungo adattare Lewis Carroll. I due sono vicini nel condividere una totale fiducia nel processo creativo, che toglie le brutture (o ce le fa comprendere disinnescandole) e che ci insegna a generare. Perché, secondo Disney e Carroll, se uno sa immaginare, allora può anche conoscere nella propria interiorità un mondo nuovo. E quando questo succede anche la realtà può essere cambiata.

Walt Disney è riuscito a completare Alice nel paese delle meraviglie dopo la seconda guerra mondiale, con interi continenti che avevano appena iniziato un lungo processo di ricostruzione e ripensamento dell’esistente. È un dettaglio commovente che, da solo, basta a rendere la visione del film ancora oggi un’incredibile investimento sulla mente dei bambini. Un gesto di fiducia nella possibilità che l’immaginazione dei futuri cittadini plasmi un mondo capace di ribaltare le brutture. Anche usando ciò che a tutti sembra un nonsenso.

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