Divergenze creative”. Sembra che sia l’unica motivazione dietro all’abbandono di un film da parte dei registi. È la frase semplice, di convenienza, che gli studi lasciano alla stampa per spiegare complicate dinamiche interne. Dietro però ad ogni divergenza creativa ci sono però svariate ragioni, differenti da persona a persona. Nel caso di Scott Derrickson la decisione di lasciare Doctor Strange nel multiverso della follia deve essere stata particolarmente combattuta. Non si abbandona un franchise del genere a cuor leggero, soprattutto se sei il regista che l’ha lanciato. A maggior ragione se il film che viene dopo è Black Phone, un horror dal budget contenuto e dalle prospettive economiche limitate.

La separazione dalla Marvel è stata pacifica, a detta di entrambi gli interessati. È stata la decisione più difficile della carriera del regista, come da lui ammesso. Abbiamo potuto capire da tweet non troppo sibillini del regista che uno dei motivi del passo indietro è dovuto al tempo di realizzazione. Prima della pandemia infatti il film avrebbe avuto delle scadenze molto rigide, costringendo il regista ad affidarsi ancora di più ai creativi dello studio e alle loro direttive per stare nei tempi creando il film concordato con la Marvel.

Con la fretta e la pressione di un film enorme sulle spalle, Derrickson ha deciso di lasciare (sempre che la decisione sia stata veramente sua) per una piccola opera personale. È stato difficile capire che cosa ci avesse visto in questa storia, tanto da rinunciare alla sua posizione in cima all’industria, fino a che il film non è arrivato in sala.

Black Phone si svolge in una dimensione produttiva più contenuta

Adattato dal racconto di Joe Hill (lo scrittore figlio di Stephen King), Black Phone è un racconto di formazione intriso di violenza e paranormale. Segue l’atmosfera dei romanzi del Re dell’orrore: l’adolescenza non è un’idilliaca età di nostalgia. Vivere è un atto di sopravvivenza quotidiana. Servono gli amici e le passioni per riuscire a superare il periodo delle high school, il bullismo e il progressivo marcire della società.

Negli anni ’70 il tredicenne Finney passa le sue giornate tra la casa, dove vive con la sorella e un padre violento, e la scuola. Nella cittadina dove abita stanno scomparendo molti adolescenti. Si pensa che siano stati rapiti da un maniaco soprannominato il Rapace. Una delle vittime è proprio Finney che viene rinchiuso in un seminterrato insonorizzato con un materasso, una finestra, e un telefono nero con i cavi recisi che inizia lo stesso a squillare. Dall’altro capo ci sono tutti gli altri ragazzi uccisi. Anime nel limbo che vogliono aiutare la fuga e la vendetta contro il loro assassino.

Scott Derrickson torna nel territorio da cui è nato. Jason Blum, il produttore a capo della Blumhouse, gli dà tutti gli strumenti per raccontare questa storia intersecando i generi. Le immagini sono un veicolo mistico per scoprire una realtà altra. Lo erano in Sinister dove i video snuff permettevano al demone di esistere nella pellicola. In Black Phone i ricordi e le visioni sono sotto forma di film in 8mm. Che grande idea!

Per fare questo però Derrickson aveva bisogno di tornare a una dimensione dell’immagine in sottrazione. Non deve aggiungere a ciò che si riprende sul set, come accade con gli effetti speciali digitali, al contrario deve togliere. Meno definizione, meno chiarezza, più ombre. È questa la formula di cui sono fatti i suoi spaventi.

black phone

I generi si incontrano in Black Phone

Black Phone è una storia di formazione. Situata all’inizio dell’adolescenza si schiaccia completamente sul punto di vista di un giovane molto consapevole di quello che sta accadendo nel quartiere, ma con ben altri problemi. La sua è una crescita praticamente in tempo di guerra dove la violenza è la principale moneta di scambio. Tutti sono tormentati da qualcosa: i genitori violenti o assenti, i poliziotti ormai abituati a vedere ogni atrocità (e quindi ciechi anche quando hanno gli indizi sotto il naso), i giovani stessi sono inquieti. Le bambine imparano a fare a botte. I film di Bruce Lee sono la scuola di sopravvivenza.

All’improvviso, proprio come in IT, subentra però una forza malvagia superiore. Uno ancora più violento: il Rapace. Così il film devia completamente giusto dopo averci presentato il setting. Il romanzo di crescita diventa un thriller con un elemento soprannaturale pienamente horror. Scott Derrickson si è innamorato di questo incontro. Una fusione a freddo che riesce benissimo ribaltando addirittura la sua premessa. I fantasmi non si vogliono bene, non aiutano Finney perché, povero lui, è stato rapito e presto verrà ucciso.

Come in un videogioco la fuga si compie attraverso l’accumulo di esperienze e tentativi. Ogni bambino rapito prima di lui gli suggerisce un’idea, una strada da percorrere. Nessuna però è quella giusta. Se vuole trovare la via di fuga deve scegliere tutte queste opzioni contemporaneamente e infine creare la sua.

Una storia nostalgica durissima e senza zucchero

Lo sceneggiatore Robert Cargill ha detto che voleva che Black Phone “trasmettesse le medesime sensazioni che ho provato io alla fine degli anni ’70 quando avevo 12 e 13 anni”. Era un periodo in cui si stavano diffondendo molte leggende metropolitane, e i killer iniziavano a entrare nella cronaca e a terrorizzare le città rurali. 

La nostalgia, che tanto fa vendere i biglietti, non è mai protagonista però. È semmai il richiamo a un periodo idilliaco che di memorabile non ha nulla. Decisamente più di Stranger Things, ma anche di IT, il film punta così tanto sull’horror da diventare un ritratto sincero di un’età in cui le emozioni sono più intense.

La cultura popolare forma un linguaggio di nicchia che parlano solo i protagonisti. Da una partita a flipper dipende lo status sociale (non battere il record causerà un’acceso scatto d’ira omicida), dai film visti dipendono i modelli di adulti a cui uniformarsi. I giovani parlano come nei fumetti, odiano come gli ha insegnato la televisione, desiderano percepire qualcosa di più come nella fantascienza che li fa sentire speciali.

Black Phone

Non tutto si spiega

Sebbene sia fondamentalmente una storia chiusa in sé, Black Phone lascia aperti tanti misteri. Perché il rapitore fa quello che fa? Come mai anche lui può sentire il telefono squillare, senza però credere alla sua mente? È forse questa percezione ultrasensoriale che l’ha mandato fuori di testa, magari rendendolo protagonista di qualche culto (da cui le maschere che indossa)? Il film non lo spiega, e fa bene.

Perché queste premesse sono proprio quelle su cui si può costruire un mito (un po’ come fece il primo Sinister). Spazio quindi alle teorie, ma non solo: con tutti i buchi voluti e gli indizi sparsi qua e là, Derrickson e Cargill hanno costruito un mondo. L’hanno fatto in un film sicuramente imperfetto, eppure validissimo intrattenimento estivo, e un buon horror.

Hanno rinunciato al successo sicuro (ma difficilissimo da condurre) di Doctor Strange nel multiverso della follia, un film che ha aperto a tante nuove storie, per fare con Black Phone un’operazione simile seppure in scala minore. Non hanno portato avanti un franchise; hanno costruito le fondamenta di un nuovo immaginario e su un nuovo mostro che potrebbe diventare – per lo meno nelle loro intenzioni – una fonte di ispirazione per molte altre piccole storie di paura.

Cosa ne pensate delle parole di C. Robert Cargill su Black Phone? Se siete iscritti a BadTaste+ potete dire la vostra nello spazio dei commenti qua sotto!

Trovate tutte le informazioni sul film nella nostra scheda.

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