Da dieci anni Cloud Atlas ha cambiato la mia idea di cosa sia un film. Da dieci anni, ad ogni visione, muta forma. A volte si fa amare alla follia, altre volte mette in discussione i miei gusti in fatto di buon cinema. Ed è normale che sia così.

L’assurdo progetto di adattare L’atlante delle nuvole di David Mitchell è un organismo che cambia ad ogni visione, un po’ come le facce degli attori che di epoca in epoca vestono nuovi panni. Sei differenti storie in sei periodi di tempo diversi collegate tra di loro da dettagli, conseguenze logiche, intuito dei protagonisti. Cloud Atlas non è un film, ma sei di questi, e non è nemmeno frutto della visione di un regista, bensì di tre. 

Lana e Lilly Wachowski – insieme a Tom Tykwer – hanno fatto uno degli ultimi grandi racconti epici della nostra epoca. La scala è gigantesca: la storia dell’umanità dal 1849 al 2321, in un futuro postapocalittico che sembra un passato fatto di superstizioni e di lingua volgare. Dentro c’è filosofia e religione, esoterismo in grandi quantità, e l’ambizione di spiegare le regole non scritte che bilanciano il cosmo. L’amore, più che la morte (ma anch’essa è parte essenziale della vita) tirano un filo in cui tutti gli uomini e le donne sono burattini consapevoli. Provano delle sensazioni che li spingono a scelte irrazionali e talvolta illogiche come la fiducia, l’interesse per la sorte altrui, il rischiare per le proprie idee. 

In Cloud Atlas ci sono sei generi, uno per ciascuna linea di trama: il film storico d’avventura sul mare, il dramma romantico, il thriller e la commedia dell’assurdo, la distopia e la fantascienza. C’è un uomo avvelenato per affari che sceglie di liberare gli schiavi vittime della tratta; ci sono due amanti e un sestetto d’archi così potente da sconvolgere il mondo; una reporter deve scoprire il mistero che si cela dietro un terribile omicidio mentre un anziano editore si ritrova imprigionato in una casa di riposo. Infine c’è una clone della Neo Seoul del futuro che scopre il diritto ad esistere come individuo e una società primitiva di uomini sopravvissuti a un’apocalisse che cerca di abbandonare la terra.

Le molte maschere di Cloud Atlas

Cloud Atlas è un film trasformista, che cambia faccia repentinamente con uno stacco di montaggio. Come tutt’uno, è un organismo caotico in continuo movimento, una forma assurda che non può funzionare costruita dai registi perché possa sfuggirgli di mano e andare per la sua strada. E infatti Cloud Atlas non funziona: ha un ritmo discontinuo che azzoppa le emozioni, ha una prima ora difficilissima da seguire in cui i personaggi si alternano così velocemente che non abbiamo nemmeno il tempo di affezionarci. Cambia così rapidamente atmosfera, passando dalla tensione al romanticismo o alla comicità che ci si trova a ridere mentre il vicino di posto piange. Ci sono trucchi orribili, mascheroni applicati sugli attori come maschere di carnevale più costose della media, e c’è una capacità immaginifica incredibile.

Lana, Lilly e Tom riempiono le inquadrature di così tanti dettagli che non si ha il tempo di vederli. E alcuni di questi sono fondamentali per capire la trama (il blocco del 2012 è legato al 1973 da un libro che si intravede per meno di un secondo in mano a un personaggio)! Se ci fossero delle regole “fisiche” applicabili al cinema, Cloud Atlas metterebbe in crisi gli scienziati infrangendole tutte. Perché questo film fatto di scelte sbagliate in un contenitore troppo stretto per ciò che vuole raccontare, nonostante le sue tre ore, incredibilmente funziona. 

Come vedere Cloud Atlas senza venirne sopraffatti

Bisogna dargli tempo. Io sbaglio ogni volta. Lo giudico e mi rimangio l’idea che mi sono fatto ad ogni visione, fino a che non arrivano gli ultimi 40 minuti. Improvvisamente gli si perdona tutto: il tono sopra le righe e anche la serietà di chi vuole fare una dimostrazione filosofica impeccabile.

Cloud Atlas ci accoglie con confusione. Come i pezzi di più puzzle sparsi in confezioni diverse e mischiate. Poi, con un processo invisibile anche a noi spettatori, si allinea sempre di più fino a sovrapporsi. La penna della sceneggiatura buca perpendicolarmente i sei fogli sovrapposti e colpisce le linee del tempo in uno stesso punto. Lì la storia assume la stessa struttura del film, e quando arriva in quella convergenza è come se l’opera stessa fosse diventata un atlante. Quando si guarda il cielo, la costellazione si riconosce tutta insieme, non una stella alla volta. Così è per la forza di questi sei racconti. 

Nessun film riesce a farlo in questo modo. Una visione epica, incastonata indissolubilmente nella sua stessa struttura. Più cresce l’ambizione ad essere tutto, a spiegare tutto, più Cloud Atlas diventa intimo e vicino ai personaggi. Un movimento inversamente proporzionale che è incredibile. 

Cloud Atlas

L’epica del montaggio come un filo invisibile

È il montaggio che avvicina due momenti nel tempo trovando un gesto comune e instaurando un legame strettissimo tra i personaggi. Le Wachowski baseranno su questo concetto tutto Sens8, serie altrettanto ambiziosa e riuscita. Ogni personaggio è uno strumento musicale che suona su una propria tonalità. Sono dissonanti per tutto il film. Poi si incontrano nel sestetto d’archi, la melodia suprema e insuperabile. Per loro quel momento è il climax delle loro storie, la decisione che devono prendere che, senza saperlo, influenzerà l’intera storia dell’umanità.

Così il film chiede di essere atteso. Va vissuto con pazienza; lungo il percorso ci è dato cogliere con i sensi solo per qualche istante la sincronia del tutto. Quando il destino si allinea, lo fa anche la colonna sonora. Quando l’amore esplode e permette di vincere sui cattivi, lo fa anche la voglia di rivoluzione che fa partire e andare lontano da casa. Come i piatti che si infrangono in una delle inquadrature più suggestive, Cloud Atlas usa i sentimenti più teneri per farli strumento di distruzione. Chi vuole bene a sé e al mondo non lascia le ingiustizie intatte, ma le spacca. Qualcun altro, in un’epoca lontana, prenderà i cocci e proverà a costruire qualcosa di nuovo.

Qui mi crolla ogni certezza.

Ogni volta.

Dopo tanti film visti, e faticando a restare a galla in questo mare di immagini in cui siamo immersi, si perde il senso di quello che può fare il cinema. Cloud Atlas mi convince emotivamente, ogni volta, che una storia ben raccontata possa ispirare delle azioni. E che queste azioni possano contare veramente. Anche se sono piccole, se sembrano insensate. Le nostre scelte sono come l’inquadrature di questa straordinaria storia: a volte sono stonate, altre volte mozzano il fiato da quanto sono belle, in alcune occasioni arrivano in ritardo, oppure anticipano i tempi sorprendendo anche noi. Un regista è responsabile di ogni fotogramma, di ogni scelta che va a costituire quell’organismo che chiamiamo film. Giuste o sbagliate che siano, anche le nostre scelte contano. Magari non oggi, neanche domani. Tra cent’anni… chi lo sa?

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