Dopo Ennio, l’Italia del cinema continua a riconoscere i suoi eroi. Finalmente. Lo fa non raccontandoli e nemmeno facendoseli descrivere. Dimostra l’impatto che abbiamo avuto sugli altri, le influenze che abbiamo generato noi. Sergio Leone – L’italiano che inventò l’America, il documentario di Francesco Zippel presentato alla Mostra del Cinema di Venezia è un dovuto atto di orgoglio. Emozionante, completo, imperdibile.

Documentare significa raccontare una realtà, spiegare dei fatti, passare delle informazioni agli spettatori. Per parlare di Sergio Leone invece la chiave è stata quella di domandare. Chiedere ad altri registi che hanno fatto la storia del cinema, e ai suoi più stretti collaboratori e famigliari, che cosa sia stato per loro, in cosa sia rimasto. 

Un ritratto a più mani che ordina le molte informazioni, tra cui molte già note, per spiegare che cosa è stato Sergio Leone per il cinema. Walter Hill ha recentemente detto in conferenza stampa per presentare il suo western Dead for a Dollar che il regista italiano è un modello. Ci sono autori che sono inimitabili, spiegava, e altri come lui che invece creano nuovi strumenti e li danno in mano agli altri registi per essere adoperati nuovamente. 

Un ragionamento condiviso anche da Quentin Tarantino, forse il regista più influenzato dallo stile di Leone. Per lui era un cantastorie che si muoveva nei generi e sapeva individuare gli archetipi. Con il suo stile ordinato, elaborato eppure semplice alla visione, era la migliore scuola di cinema possibile. Pienamente consapevole di dove il film sta andando, sovverte le aspettative, gioca con il pubblico, lo porta per mano in un saliscendi di emozioni. 

L’intervento più sorprendente all’interno di L’italiano che inventò l’America è quello del celebre fumettista Frank Miller. Nel creare Sin City con il sodale Robert Rodriguez si sono ispirati alla trilogia del dollaro. C’è di più. Miller, che ha un modo di ragionare sequenziale e per blocchi di immagini, come sono le tavole dei fumetti, riscontra lo stesso procedimento. I suoi western sono inquadrati e sonorizzati come un albo. È questo modo di dirigere che conferisce il rigore formale e la chiarezza espositiva. All’interno della sceneggiatura invece, i suoi personaggi sono la fusione perfetta tra “il mito del cowboy e l’indolenza romana”. 

Un cinema popolare, eppure personalissimo che è diventato genere. Lo spaghetti western non si ferma nel linguaggio della frontiera. Entra anche nel cinema musicale. Per Ennio Morricone, ovviamente, per i suoni di Enzo Diliberto e Fausto Ancillai, e per lo spazio che gli veniva concesso generosamente nel film. Il tempo si dilata, il cinema non è più sintesi di una vita in 90 minuti. È letteratura, perché manipola le sensazioni e viaggia nella soggettività.

Ci sono due registi che nel documentario raccontano cosa sia stato Sergio Leone per loro. Il primo è Giuseppe Tornatore, in un adorabile controcampo che Zippel gli concede rispetto al suo documentario su Ennio Morricone. Le sequenze dietro le quinte in cui sul set di Cera una volta in America viene passata la musica del film sono le stesse già mostrate in Ennio. Cambia il commento, affidato a Tornatore stesso. Qui il film ribalta la prospettiva. Il sodalizio con il compositore è stato totale sia nei momenti in cui la colonna sonora veniva lasciata libera. Pochi sanno che lo stesso accadeva anche quando si richiedeva il silenzio più totale. Nessuna gelosia.

Sergio Leone Quentin Tarantino

Damien Chazelle è il regista contemporaneo più attento alla musica. Rivede in Leone l’ultimo grande regista del muto. Lui parla con la musica e con le immagini, sono loro che dicono quello che un attore pensa sia quando non parla che durante i dialoghi. La forma diventa quindi un modo per entrare verticalmente nella trama. Per sviscerare le profondità emotive. Così, a distanza di più di mezzo secolo, ancora sembrano girati oggi. 

L’italiano che inventò l’America calza a pennello come sottotitolo. Perché nel montaggio gli interventi di Spielberg e Scorsese non sono funzionali ad esaltare l’idea di cinema celebrata. Sono messi semmai in una posizione subordinata per dimostrare che le idee di Leone sono lì, su una tavola aperta a tutti, per attingerne. Loro l’hanno fatto. Provando a manipolare quella materia lì, hanno costruito qualcosa di nuovo. L’invito è a non esitare e farlo ancora.

C’era una volta in America fu il suo film impresa. Il sogno rincorso per anni anche a costo di rinunciare ad altri progetti (tra cui Il Padrino). A quel punto della sua carriera il film titanico era la perfetta ossessione. Ancora prima di avere la possibilità di produrlo, lo sapeva raccontare di scena in scena quasi in tempo reale. È la precisione che chiunque vorrebbe avere che va oltre quella di un visionario. È quella di un professionista. Chi non ha mai perso il senso artigianale del lavoro, pur spingendo al massimo la creatività. 

In tanti hanno provato a descriverlo nel documentario. C’è chi addirittura lo definisce un misto tra Buddha e Orson Welles (date le dimensioni corporee). È un erede che ha fatto eredi, un anello solidissimo nella catena di crescita del cinema. Ma la definizione migliore la dà Tornatore: “è un ragazzino che si ricorda ancora come giocare, ma che ha già capito come sarà il mondo dei grandi”.

SERGIO LEONE- L’ITALIANO CHE INVENTÒ L’AMERICA

Scritto e diretto da Francesco Zippel

Una produzione Sky Studios e Sky Italia con Leone Film Group

Al cinema dal 20 ottobre con 01 distribution

Vi ricordiamo che potete seguire BadTaste su Twitch!

SPECIALE FESTIVAL DI VENEZIA

Classifiche consigliate