Questo speciale su Demolition Man fa parte della rubrica Tutto quello che so sulla vita l’ho imparato da Sylvester Stallone.

C’è una storia dietro Demolition Man, che parla di un criminale che torna in libertà dopo essere rimasto congelato per decenni, e di un poliziotto e sua unica nemesi che viene a sua volta fatto riemergere dal ghiaccio per fermarlo, e che nel corso della sua avventura in un futuro a lui non familiare riesce comunque a trovare il tempo di innamorarsi. C’è, ma lasciatecelo dire: è un po’ sepolta sotto strati e strati di quello che oggi chiameremmo world building. Ambientato nel 2032, cioè praticamente dopodomani, Demolition Man è una distopia mascherata da utopia che dipinge un mondo ipertecnologico ma non troppo e nel quale a essere cambiati sono prima di tutto i costumi, il modo di rapportarsi al resto della società e anche a sé stessi e al proprio corpo. È materiale affascinante e intellettualmente stimolante, che da solo basterebbe per “fare” il film.

Demolition Man gni gni gni

Il futuro di Demolition Man è, per molti versi, una deriva distopica di quello che oggi un po’ di gente chiama “politicamente corretto”. Un mondo nel quale si è fatto il possibile per eliminare ogni tipo di frizione sociale e ogni tipo di interazione che possa provocare sconvolgimenti o scossoni nello status quo. Il 2032 nel quale John Spartan si risveglia dopo essere finito sotto ghiaccio per aver involontariamente provocato la morte di una ventina di innocenti è un futuro satirico ma comunque futuribile (d’altra parte la realtà stessa sta diventando una gigantesca satira pre-apocalittica), nel quale è impossibile non vedere, estremizzata, l’esplosione di certi eccessi contemporanei.

E attenzione, non ci riferiamo al “politicamente corretto” in senso spregiativo, quella visione del mondo cioè che ha in realtà a che fare con temi fondamentali e cambi di prospettiva che sono realmente necessari. Ci riferiamo piuttosto alla generale sanificazione di ogni interazione sociale, spersonalizzata e quindi depurata da ogni rischio di contaminazione della perfezione. Nel mondo di Demolition Man, è la gag più ricorrente che non smette mai di far ridere, non si possono dire le parolacce, perché le parolacce sono sintomo di una disposizione aggressiva e di un’incapacità di controllare i propri istinti (“Neanderthal” è l’insulto che John Spartan si sente rivolgere più di frequente, un insulto tutto sommato immeritato per i nostri lontani cugini).

Sandra and co

E quindi il semplice atto di dire “shit”, “fuck” o “goddamn” diventa una piccola ribellione verso quella che solo un esterno può riconoscere come distopia (Demolition Man è un film nel quale è impossibile non tifare almeno un po’ per i cattivi). Due esterni, in realtà: Demolition Man gioca con il trope classico dell’uomo fuori dal suo tempo, ma aggiunge il carico da novanta di un villain che è altrettanto anacronistico. Simon Phoenix, interpretato da un Wesley Snipes incontenibile, è un’ulteriore bomba di anarchia gettata sulla San Angeles del 2032, e se John Spartan tutto sommato prova ad adeguarsi ai nuovi costumi, Phoenix vuole solo portare caos, ed è l’incarnazione perfetta di tutto quello per cui il dottor Raymond Cocteau, inventore della crioprigione e in generale della distopia sanangelena, ha lavorato.

Aggiungeteci un terzo livello di lettura ancora più politico dei primi due: l’esistenza di una civiltà sotterranea che non accetta lo stile di vita imposto da Cocteau e preferisce fare la fame all’assimilazione. La distopia di Demolition Man era una polveriera pronta a esplodere prima ancora dell’arrivo di Spartan e Phoenix. Il risultato è una rivoluzione rapida e per nulla indolore che stravolge un intero sistema sociale nel giro di pochi giorni: il fatto che un po’ ci dispiaccia è la dimostrazione della grandezza di Demolition Man.

Simon Phoenix

Non che ci dispiaccia vedere questa specie di Grande Fratello con un marketing più azzeccato collassare sotto le sue stesse contraddizioni. Spiace perché il mondo del 2032 immaginato da Peter Lenkov e Robert Reneau è strapieno di dettagli deliziosi, e c’è un certo piacere perverso nello scoprire quanta attenzione sia stata loro dedicata – al punto che ne vorremmo di più. Le tre conchiglie sono ormai un meme e uno dei simboli del film, come lo è l’esistenza della Biblioteca Presidenziale Schwarzenegger. Ma ogni singola scena nasconde una chicca, un altro pezzo di un mosaico costruito con più attenzione di quanta ne venga dedicata di solito a film del genere. San Angeles è un luogo vivo e coerente; spaventoso, orripilante, ma con un’identità e una personalità fortissime, anche per merito di un set design che sta a metà tra Blade Runner e Mad Max (e che a tratti ricorda un altro film di fantascienza distopica uscito quell’anno, cioè Super Mario Bros.).

In mezzo a questo delirio, a questa overdose sensoriale, il protagonista di questa rubrica spicca in tutta la sua magnificenza, e lavora con alchimia perfetta sia con Sandra Bullock sia con Wesley Snipes, capendo quando è il momento di lasciare a loro la scena ma sempre pronto a riprendendosi il microfono alla bisogna. Venne scelto perché era Sylvester Stallone e lui eseguì il compito con efficienza e una buona dose di panache, regalandoci alcune delle sue battute migliori in carriera e finendo anche per influenzare, più o meno volontariamente, l’intera produzione: Lori Petty, per esempio, venne licenziata dopo due giorni per “differenze creative” proprio con Sly e sostituita da Sandra Bullock. Insomma: nel 1993, Stallone era il volto giusto per un film del genere, che infatti fu il suo più grande successo di quegli anni, arrivando a quasi 160 milioni di dollari di incasso (a fronte di un budget, gonfiato dai ritardi, di una cinquantina di milioni). Sly fece bene a Demolition Man, e sembrava che Demolition Man potesse fare del bene a Sly, indirizzandolo verso una nuova fase della sua carriera, quella ai confini del supereroismo. Poi però uscì Dredd: ne parliamo tra una settimana.

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