La notte del giudizio – Election Year va in onda su Italia 2 questa sera alle 21:15

La notte del giudizio – Election Year è quello che ti succede quando ti rendi conto di averla fatta grossa e provi a rimediare in fretta e furia. Il franchise inventato da James DeMonaco e ispirato a un vecchio episodio di Star Trek – e anche ad altre opere analoghe tipo La settima vittima, L’uomo in fuga e ovviamente i Due Minuti d’Odio di 1984 di Orwell – ha sempre goduto di un successo in qualche modo inaspettato in America: l’idea stessa al cuore di tutto è una satira potentissima e non particolarmente mascherata di certi aspetti bestiali degli Stati Uniti, e in un certo senso sapere che una saga così diretta e aggressiva nei confronti del suo stesso pubblico sia sempre riuscita a incassare tra il bene e il benissimo è confortante.

Ma già con il secondo capitolo, Anarchia – La notte del giudizio, il franchise di The Purge cominciava a mostrare qualche problema di fondo. Uno in particolare: come si fa a uscire vivi da una saga che nasce per gridare in faccia all’America quanto sia pessima, quanto abbia glorificato la violenza e il profitto a scapito di tutto il resto, una saga nella quale il 99% delle persone, che siano protagoniste o comparse sullo sfondo, non si fanno problemi ad ammazzare altri esseri umani nel nome della libertà? Esiste una soluzione che non sia l’apocalisse, un modo per chiudere la storia con un filo di speranza invece che nell’abisso nero pece che è l’universo di The Purge?

 

La notte del giudizio - Election Year tipe

 

Anarchia si chiudeva con una rivelazione: il fatto cioè che lo Sfogo (così si chiama in italiano) non fu inventato per permettere alla popolazione americana di, appunto, sfogarsi, ma per fare una strage di poveri, senzatetto e altre categorie fragili, data in outsourcing al resto della popolazione, così da sollevare il governo dalla necessità di spendere soldi in welfare. Era una svolta esplicitamente politica in un franchise che nasceva come tale, ma che fin lì si era aggirato più nei pressi della sociologia, usando lo Sfogo come una scusa per esplorare certi aspetti poco raccomandabili dell’animo umano.

La notte del giudizio – Election Year si ritrova così con l’ingrato compito di proseguire lungo la strada della politicizzazione esplicita: i Nuovi Padri Fondatori si sono rivelati non come entità neutrali e distanti che hanno inventato lo Sfogo per il bene del Paese, ma come un’ennesima variazione sul tema del politico corrotto, e dell’1% che opprime il restante 99%. Come si fa un terzo film partendo da questi presupposti? La risposta di James DeMonaco è: perdonando l’America.

 

I russi

 

Al centro di Election Year c’è la senatrice Charlene Roan (Elizabeth Mitchell), la prima candidata alla presidenza che si oppone esplicitamente allo Sfogo e promette di abolirlo se verrà eletta. Al suo fianco ritorna il Leo di Frank Grillo, riciclatosi come sicurezza privata dopo gli eventi di Anarchia. Ma la sua presenza serve soprattutto per tenere vivo il lato action: quello che interessa al film è parlare di politica. Per la prima volta, una delle persone che nei precedenti due film era immune alla violenza dello Sfogo diventa protagonista (ovviamente in concomitanza con l’abolizione di questa particolare forma di protezione), e per la prima volta lo scontro che sta al cuore del film coinvolge la popolazione “normale” solo tangenzialmente. Gli attori politici sono quelli che contano: la senatrice rivoluzionaria, il primo ministro conservatore e ardente sostenitore dello Sfogo, e Dante Bishop, il terrorista/rivoluzionario anti-Sfogo che abbiamo conosciuto già nel primo film.

In altre parole, La notte del giudizio – Election Year è una sorta di marcia indietro, un modo per DeMonaco per dire “guardate che prima esageravo: non è vero che fanno tutti schifo, ci sono anche i buoni, anche nel crudele mondo della politica!”. Tutto il film, in realtà, è una celebrazione di quel poco di buono che è rimasto negli Stati Uniti post-Sfogo: il proprietario di un deli (Mykelti Williamson) che “si è fatto da solo” e che ha dato una seconda possibilità a un immigrato messicano (“ma cittadino statunitense da ormai due anni”); Laney (Betty Gabriel), l’ex-assassina riformata che ora gira per la città durante la notte dello Sfogo per soccorrere i feriti e aiutare chi è in difficoltà. Non è un caso che il film si svolga nel 2040, quasi vent’anni dopo gli eventi dei primi due film: lo scopo principale di Election Year è farci vedere che, con il tempo e tanta pazienza, anche gli americani sono in grado di capire che c’è qualcosa che non va nel sistema e c’è bisogno di cambiamento.

 

Elizabeth

 

Ci sono momenti in cui questa nuova agenda diventa talmente esplicita da fare male agli occhi. Il film, che di fatto è una re-interpretazione di Fuga da New York, racconta la fuga della senatrice Roan e della sua guardia del corpo, braccati da un gruppo di neonazisti al soldo del governo che vogliono rapire la candidata e sacrificarla in quanto eretica. Nel corso del loro viaggio allucinante (durante il quale DeMonaco si diverte a farci vedere i soliti brevi squarci di come funziona il resto dell’America durante lo Sfogo), i due finiscono tra l’altro in un rifugio sotterraneo gestito da un gruppo segreto anti-Sfogo, nel quale la senatrice può finalmente fare un po’ di sana campagna elettorale e dimostrare alla gente che non tutti i politici sono corrotti, che c’è ancora del buono in America e che per farlo emergere si tratta solo di dare la possibilità al popolo di esprimersi.

Con La notte del giudizio – Election Year, il franchise di The Purge smette ufficialmente di essere una storia di anarchia, una spirale di discesa nella violenza che riflette, amplificandola, quella nella quale la vera America sta, secondo DeMonaco, precipitando. E diventa una più tradizionale storia di noi vs. loro, di resistenza vs. fascismo – di buoni contro cattivi, una distinzione che fino a quel momento era stata molto più sfumata. “Siamo cattivi” dicevano La notte del giudizio e Anarchia. “Sì ma non siamo poi così cattivi” si scusa invece Election Year – o se preferite #notallamericans. Scuse accettate, ma non siamo sicuri di credervi.

Classifiche consigliate