L’alba del pianeta delle scimmie sapeva benissimo come iniziare un franchise

In qualche modo si dovrà pure iniziare. Se bisogna proprio farlo, tanto vale partire dal principio e da lì fare un balzo ancora indietro. 10 anni fa arrivava sugli schermi italiani L’alba del pianeta delle scimmie. Un reboot prequel che riscrive e riadatta le suggestioni in chiave contemporanea. Tradotto nella lingua dello stivale: un tentativo di rilanciare l’immaginario di Pierre Boulle un po’ come Nolan aveva fatto con il crociato di Gotham in Batman Begins. Una spolverata di realismo, effetti speciali all’avanguardia, tanta serietà e nessuna bonaria ingenuità anni ’60. Un prodotto “figo” per i giovani e nostalgico il giusto per tutti gli altri. 

Incredibile a dirsi, L’alba del pianeta delle scimmie funziona. È un raro tentativo di iniziare un franchise nell’ultimo decennio che ha avuto successo. È lungimirante, ben strutturato e con le gambe lunghe. Merito di Rupert Wyatt, regista sconosciuto a quel tempo così come lo è oggi. Messo a capo del progetto dopo un solo film, Prison Escape, con il compito di rifare la sua opera d’esordio. Solamente, questa volta, con le scimmie. A curare la controparte umana un James Franco che rivela tutta la sua insofferenza, e Freida Pinto che invece trasmette visibile entusiasmo. Peccato non le venga mai dato sufficiente spazio per uscire dall’anonimia della macchietta. Poco importa, i protagonisti sono altri.

Il film doveva fare poche cose, ma farle molto bene. In primo luogo doveva spianare la strada ad altri film. Era il primo passo di un cammino, e la produzione fece di tutto per farlo capire sia al regista che al pubblico. È fondamentale quel “rise” nel titolo (tradotto da noi come alba) che generò qualche grattacapo quando arrivo il secondo capitolo che in inglese recita “Dawn of the Planet of the Apes”. In Italia fu chiamato Apes Revolution, iniziando un rompicapo di titoli che tra gli addetti ai lavori viene sciolto con: “il primo delle scimmie, il secondo, il terzo”. Fatto sta che, dai trailer alle locandine, tutto urlava “l’inizio di una serie” e se visto così ha perfettamente mantenuto le promesse. 

La seconda cosa in cui Wyatt doveva convincere era la rappresentazione visiva delle scimmie. Per farlo si affidò ai più bravi nella tecnica della Motion Capture: la Weta Digital e Andy Serkis. Verificata la fattibilità in digitale, il film esagerò, venendo quasi mangiato dalla performance digitale dell’attore. Non solo le scimmie erano perfettamente credibili, Cesare appariva sul grande schermo vivo e raggiungibile. Fu un tale shock che alimentò un breve ma acceso dibattito sui limiti e le frontiere della recitazione. Fu presto abbandonato, sia chiaro, ma il fermento fruttò a Serkis qualche candidatura minore e al film l’attenzione accademica. 

Eccezionale anche ciò che arriva alle orecchie. Il sound designer Chuck Michael mixò la voce dell’attore con quella di uno scimpanzé per far parlare Cesare. È effettivamente impressionante come i suoni doppino le immagini amplificando le emozioni. La centralità degli occhi, ripresi, zoomati, moltiplicati è una dichiarazione di intenti: sarà l’empatia a rompere la barriera tra chi è fisicamente presente e chi è ricreato digitalmente. Così è stato.

Il cinema è una forza imprevedibile però, e non sempre tutto va secondo i piani, nemmeno le cose positive. Un grande problema de L’alba del pianeta delle scimmie è proprio il suo successo visivo. I primati sono così ben fatti e anche ben scritti in sceneggiatura, che annullano le emozioni del terzo atto in un totale pareggio. Siamo combattuti: per chi tifare? Per gli umani che, per quanto crudeli, sono i nostri simili, o per le scimmie che li sterminano senza pietà, ma che ci stanno più simpatiche? 

 

L'alba del pianeta delle scimmie

 

Wyatt sacrifica qui il suo finale per un bene maggiore e in questo atto di generosità riesce a lasciare la pista libera perché i seguiti decollino. L’alba del pianeta delle scimmie non è nulla di quello che promette il titolo. Non vediamo il sole sorgere su una nuova terra (anche perché il film finisce con un tramonto), ma in quasi due ore abbiamo avuto un grandissimo trailer di tutto quello che verrà.

Ha inoltre la rara capacità di reggersi come film autonomo strutturato su tre generi diversi. Il primo è un dramma medico, fatto di tentativi, ricerche e virus creati in laboratorio. Il secondo è un prison movie dove si raccolgono oggetti, si valutano piani in segreto e si tenta la fuga dalla struttura di detenzione. Il terzo film, l’ultima mezz’ora, è apocalittico. Tutto materiale da trailer con immagini solenni e scenari d’impatto. C’è un ponte da attraversare, da una parte il resto del mondo, dall’altra poche scimmie che, in uno spazio ristretto, sembrano tantissime. Il salto oltre le barriere della polizia significa l’apertura a un qualcosa di nuovo e di ignoto.

Non è da tutti la saggezza di iniziare piano. Soprattutto, a differenza del Marvel Cinematic Universe, se non si hanno migliaia di personaggi da cui attingere, ma solo una trama lineare da condurre il più a lungo possibile. L’alba del pianeta delle scimmie posiziona la saga sui nastri di partenza, ma generosamente non inizia a correre. Tratteggia i contorni di quello che sarà poi, e lascia il compito ad altri di colorarle gli spazi bianchi all’interno nei film successivi. Allo stesso tempo riesce però a mantenere una propria identità precisa per 2\3, ad avere una piena ragione d’essere e addirittura una sua originalità!

Non è un film ossessionato dal realismo, però è credibile e coerente. Non ha debiti verso il passato, però lo omaggia in maniera molto intelligente tramite le immagini degli astronauti in tv. C’è una comparsata di Charlton Heston, attore nel Il tormento e l’estasi trasmesso su uno schermo durante il film e tanti piccoli riferimenti, come la cupola in cui sono rinchiuse le scimmie simile a quella degli umani nel film del 1968.

L’alba del pianeta delle scimmie è quindi un bell’esempio di come si possa lavorare con intelligenza su del materiale pre esistente. Adattarlo a una sensibilità diversa, contemporanea, senza mai un senso di inferiorità. Con la visione di Wyatt non si ha mai la sensazione di inutilità, di un film chiuso in se stesso che non sia necessario. Sembra che quella storia sia raccontata per la prima volta, e in parte è proprio così! Ci si sente sempre trascinati in avanti, in un film che si evolve e cresce fino ad arrivare alle porte di qualcosa di grande, ma che possiamo solo scorgere.

Per ora.

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