Police Story e Police Story 2 sono disponibili in streaming su NOW!

Il corpo di un atleta, la testa di un filmmaker, l’irresponsabilità di Tom Cruise.

Quando Police Story arriva in sala nel 1985 nessuno aveva mai unito il poliziesco e le arti marziali. Figuriamoci in chiave di commedia!
Erano 7 anni che Jackie Chan era diventato davvero famoso, da Drunken Master (1978), il film che l’aveva elevato definitivamente al rango di protagonista stabile. Sette anni in cui, oltre ai sequel di quel film, aveva sperimentato film che alzassero la posta dell’azione a livelli possibili solo a lui con i gli amici conosciuti negli anni della China Drama Academy (praticamente Tana delle Tigri per performer dell’opera di Pechino). Project A è il primo a offrire veri stunt in vere location dai veri attori. Chan era entrato in contatto con il cinema muto americano, citava Buster Keaton e Harold Lloyd, aveva 29 anni ed era arrivato ad un altro livello di consapevolezza di come funziona il cinema. Ad ogni produzione alza l’asticella di quel che si può fare e mostrare, non solo in termini di grandezza ma anche di precisione delle coreografie e ruolo del corpo nell’immagine. Fino al 1985.

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Prima di Police Story aveva già diretto dei film ma non per soddisfare velleità di cineasta, l’aveva fatto per cominciare ad avere il controllo su quel che faceva e poterlo cambiare. Aveva anche cercato di lavorare in America, aveva partecipato a La corsa più pazza d’America nel classico ruolo infame che Hollywood affida agli stranieri, lo stereotipo del cinese che fa kung fu, in cui le sue doti di commedia erano sprecatissime (per non parlare degli stunt). Però da quel regista, Hal Needham, aveva visto per la prima volta qualcuno mettere i ciak sbagliati sui titoli di coda. E poi aveva tentato di sfondare con The Protector, un disastro tale di risultati, esperienza e poi botteghino che gli fece prendere la decisione definitiva: basta con questi tentativi, era il momento di tornare ad Hong Kong e fare un film come non se ne sono mai fatti. Polizia, anarchia, commedia e una quantità di stunt che per ambizione e precisione della coreografia erano fuori dal mondo.

police story fight

Police Story parte con una retata in una baraccopoli alle porte di Hong Kong, un villaggio costruito per il film e soprattutto distrutto per il film in una scena di fuga in auto attraverso le case che ha la medesima funzione delle aperture nei film di James Bond (impostare l’azione e fare una promessa al pubblico) ma raddoppiata in ampiezza e realismo del senso del rischio. Venti anni dopo Bad Boys 2 l’avrebbe omaggiata ma alla metà della spettacolarità. Prima la distruzione totale in auto e poi l’assolo di Jackie Chan, poliziotto d’azione che insegue da solo un autobus a due piani attaccato con un ombrello (in realtà una barra di metallo a forma di ombrello) volando a destra e manca, sul tetto e dentro attraverso i finestrini. Tutto vero. l culmine è il finale in cui l’autobus inchioda davanti alla minaccia della pistola e i criminali vengono sbalzati fuori dal parabrezza finendo sul cemento. Come molti degli stunt è ripreso da più macchine da presa e il film lo propone due volte, per essere certo che abbiamo capito che veri esseri umani sono finiti davvero sull’asfalto. Solo pochi anni dopo Stallone l’avrebbe rifatto in Tango & Cash ma senza il medesimo realismo.

Nello stesso anno in cui in America usciva Commando, l’inizio di un cinema d’azione esagerato, Jackie Chan esagerava in un altro senso. Più concreto. Police Story ha proprio l’andamento del film-manifesto, è un pugno in faccia a tutti che sbandiera ad ogni scena il proprio voler essere diverso e fare quel che tutti hanno timore o non sono capaci a fare. È un film che punta i piedi e afferma la volontà di lavorare ad un altro livello, con una propria squadra (il Jackie Chan Stunt Team) e un modo diverso di concepire, scrivere e produrre i film. E non è solo questione di performance sul set ma anche proprio di tecnica del cinema. Per proporre coreografie a quella velocità e quel grado di complessità senza che risultino confuse Jackie Chan ha capito che il colpo va montato due volte, non si stacca mai sull’impatto ma in modi più creativi e la seconda inquadratura ripropone alcuni fotogrammi di quella che l’ha preceduta (in questo senso vediamo i colpi due volte anche se non ce ne accorgiamo).

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Il protagonista del film è il classico modello maschile di Jackie Chan tenero, impacciato, onesto e buonissimo, ma anche una furia d’azione senza vanità e senza coolness. Un eroe del muto. La trama lo vede combattere contro un signore della droga che l’ha incastrato. Di nuovo una trama semplice ma condotta con una furia che si riscontra non solo in ciò che accade ma anche nella recitazione. Il livore, il desiderio di emergere e la lotta contro tutti viene caricata dal realismo degli scontri e dei vetri infranti. C’è una storia d’amore con Maggie Cheung (forse la più grande attrice di Hong Kong della sua generazione, all’epoca ancora all’inizio) e soprattutto c’è la sequenza al centro commerciale.

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È il gran finale in cui un film di combattimenti, agguati, uno contro 5 e gente che cade dai balconi arriva a compimento. Il poliziotto retto che è stato incastrato non si ferma davanti a niente. Messo con le spalle al muro da un sistema che non sa punire criminali ricchi e potenti, non gli rimane che comportarsi come una scheggia impazzita. Senza aiuti sgomina tutto e tutti, distruggendo da solo un centro commerciale fino al clamoroso stunt finale in cui scende appeso ad un palo intorno a cavi elettrici e lampadine che esplodono per atterrare su una struttura di legno che si distrugge. Cade per 6 piani, sfonda un vetro e poi atterra ma (come si vede) è subito in piedi. È lo stunt più pericoloso della sua carriera. Mostrato 3 volte nel film (in sequenza) e realizzato necessariamente in un ciak solo prima del quale uno degli stuntmen di fiducia aveva dato a Jackie un abbraccio e una preghiera buddista in un fogliettino di carta da tenere nei pantaloni. Così. Questo è il rapporto tra vita, cinema e arte nella testa di Jackie Chan.

Questa scena è assurda ma come si vede bene dalla clip qua sopra la decisione folle del protagonista di fare una cosa simile è il culmine della rabbia e del maltrattamento. Il sistema che consente al ricco criminale di farla franca non solo lo ha incastrato ma lo umilia, picchia la sua fidanzata e la spinge a pedate nel sedere giù dalle scale. C’è un’indignazione fuori dalla norma per questo genere di produzioni innocue e di certo non sovversive. C’è la rabbia dell’individuo che non riesce a fare quel che vorrebbe, si scontra con un mondo che funziona al contrario ed è costretto a scelte estreme per sopravvivere.

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La storia finirà bene, ovviamente, con la condanna dei cattivi, ma il film finirà anche meglio con una canzone eccezionale, pienamente anni ‘80 cantata da Jackie Chan stesso che a questo punto, definitivamente, ha fatto tutto nel suo film. Sì è giocato tutto nel primo action movie di una nuova era. I premi arrivano a cascata, gli incassi sono pazzeschi ma si dovrà aspettare per una circolazione internazionale, dovrà diventare un franchise milionario. La replica arriva 3 anni dopo con Police Story 2, decisamente più morbido dal lato della storia, meno arrabbiato e più convenzionale (storia di un attentatore bombarolo che gli sequestra la fidanzata) ma non meno furioso nell’azione. Come in tutti i sequel il punto è alzare la posta e lo si fa con le esplosioni.

Viene assunto un esperto di esplosivi pirotecnici americano, aumentato il budget e coinvolta anche Maggie Cheung (povera) nelle scene d’azione, tanto che i soliti infortuni che colpiscono lo stunt team toccano anche a lei, ferita in testa dalle schegge di un’esplosione e ricoverata. La produzione non si ferma e per tutte le scene rimanenti il suo personaggio è inquadrato di spalle o da lontano, interpretato da una controfigura.

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Qualcosa di simile capita anche a Jackie Chan, che finisce per errore contro un vetro vero invece di prendere quello falso. Come nel caso dei criminali che cadono sull’asfalto del primo film è un errore (lì ci sarebbe dovuta essere un’auto ma il bus si fermò troppo presto) e il ciak non di meno è stato tenuto. Le riprese del backstage con la barella, il gesso, i medici e il dolore nel volto sono materiale in più per i titoli di coda, per ricordare sempre a tutti che non c’è niente di falso, che quello che hanno visto è un film d’azione che ha sia valore per quel che si vede che per come è fatto. Il film vuole incassare, le scene dopo i titoli di coda vogliono cambiare il cinema.

Con una sequenza da urlo in un parco giochi per bambini di notte e una crescendo di importanza e grandezza delle esplosioni con uno stile il cui unico possibile referente sono i videogiochi platform, Police Story chiude la rivoluzione. I film successivi della serie confermeranno tutto con trovate eccelse ma non cambieranno la sostanza. Da lì non si può andare più in alto solo tentare di rimanere a livello (anche se lo stunt di Michelle Yeoh nel terzo, quando con una moto sale sul tetto di un treno in corsa, è una vetta che ancora non si era vista).

Il mondo occidentale ci metterà tantissimo ad adeguarsi, prima ingloberà Jackie Chan, senza però farlo lavorare come dice lui, con i suoi tempi maniacali e le sue possibilità, poi ne celebrerà le imprese. Solo decenni dopo viaggerà gradualmente verso un’azione tecnica. Ma nessuno canterà mai così.

Police Story e Police Story 2 sono disponibili in streaming su NOW!

 


 

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