Se i film di Miyazaki sono una delle espressioni più pure di cinema è perché danno alla scrittura lo stesso peso delle immagini. Non di più. Non di meno. Accade così spesso che la logica della sceneggiatura scricchioli perché sostituita dall’intuizione delle immagini, e le due componenti contribuiscano a dare un senso ai film. Porco Rosso è una delle punte più alte di questo binomio tra ciò che si può capire e ciò che si intuisce. Quel che si capisce è una storia leggerissima di sfide e amori sul mare nell’Italia fascista. Quel che si intuisce è la storia di un uomo che ha qualcosa di rotto dentro, un uomo che non ha stima di sé e coinvolge Hayao Miyazaki come persona e il posto che sente (o almeno sentiva ad inizio anni ‘90) di avere nel mondo.

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Lo scenario di Porco Rosso è quello di un film molto giocoso e ridanciano che racconta la storia di un’estate sull’Adriatico italiano (estremamente esotico per un giapponese), di una sfida per la mano di una bella e di personaggi scemi e ridicoli, tutti tranne uno, Marco Pagot, il protagonista, che è raccontato con grandissimo dramma, un uomo serio, distrutto dalla vita che ha fatto, pieno di sfiducia nel genere umano, massacrato da una guerra e ignavo. L’ignavia è la sua caratteristica fondamentale, quella che lentamente deve vincere nel corso del film ma che all’inizio lo presenta. Tutto parte con un’inquadratura di uno scenario di riposo. Marco è in un’oasi, una piccola caverna aperta, che nessuno può vedere, che dorme con un po’ di radio di sottofondo. Dorme. Non fa niente. Non ha stimoli. Eppure quando di colpo scoppia l’azione, salta nell’aereo e sì butta nel primo conflitto da operetta, contro dei ridicoli pirati dell’aria. Il mondo è ridicolo ma lui è serissimo. Passa dalla pigrizia al massimo della velocità e dell’azione furiosa in un attimo. 

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Documentari, cronache, interviste e tutto quello che si sa di Miyazaki racconta la stessa cosa, cioè che ritiene il mondo un posto ridicolo, di cui farsi gioco, ma è una persona serissima, un maniaco del proprio lavoro. Un uomo duro che fa cartoni per poter volare con gli aerei che disegna. In un film pieno di contrasti spesso insanabili e incongruenti, Porco è il personaggio più fuori luogo di tutti. Il momento storico sembra descritto con il senno di poi, sembra il ricordo dorato di Fio (come intuiamo dal finale) di quando tutto ancora era splendido, una guerra era alle spalle e nessuna sapeva che un’altra sarebbe arrivata, anche il fascismo, che serpeggia in tutto il film, è una preoccupazione non grande come poi sarebbe diventata, un timore che aleggiava ma che poteva essere dimenticato su quel tratto di riviera.

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Miyazaki guarda dentro se stesso e vede un uomo ignavo che non prende posizioni, non un pigro in senso stretto (Porco fa di tutto per il suo aereo e per le sue passioni e quando è in missione non si risparmia) ma qualcuno che sembra aver rinunciato a combattere per gli altri e per la società, in attesa di qualcosa che lo smuova. Per questo, lo capiamo, è un maiale. Sarebbe una specie di maledizione che viene dalla guerra che ha combattuto, ma più in generale è segno di ignavia (quello rappresenta il maiale nella cultura giapponese) eppure è anche lui il primo a dire di non voler essere uomo. Nel momento migliore di tutto il film, una notte passata con Fio come fossero padre e figlia, lui le dirà: “A guardar te mi viene da pensare che l’umanità non sia poi da buttar via”.

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Subito prima Fio, svegliatasi in silenzio, aveva visto Marco Pagot in forma umana, una musica di una dolcezza solenne lo sottolinea come un attimo cruciale, non appena però lo chiama e lui si accorge che lei lo ha guardato ridiventa maiale. Marco si è autoesiliato alla forma di maiale, non vuole essere un uomo, non vuole impegnarsi, non vuole prendere una parte. In un’epoca in cui gli uomini sono tutti fascisti “Meglio porco che fascista”. Così per tutto il film non si impegnerà davvero nemmeno per il suo amore ma solo per una cretinata, una sfida stupidissima di quelle che si possono combattere solo in tempi in cui non esistono problemi maggiori. Solo che i problemi maggiori esistono, Marco fa finta di non vederli. Non si compromette anche quando i suoi amici glielo chiedono. E alla fine, maturato un altro senso dell’umanità grazie a Fio, partito per un tramonto intuiamo che è tornato umano (anche se non lo vediamo), come Bogart alla fine di Casablanca ha deciso di schierarsi.  

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Sono questi tutti dettagli che la trama fatica a spiegare (o proprio non spiega per niente) ma che si intuiscono grazie alla regia e alle immagini di questo maiale, la figura chiaramente più ridicola di tutte, che però è sempre preso in atteggiamenti serissimi (che è per Miyazaki una maniera per prendere in giro se stesso e la sua attitudine da otaku per le cose gli interessano). È cinema raffinatissimo, il massimo immaginabile, che mentre lotta furiosamente per mettere sullo schermo le migliori sequenze di aereo mai viste (incluse quelle girate dal vero) mentre rappresenta la furia del vento e della velocità come forse mai Miyazaki è riuscito a fare, al tempo stesso mette in scena le contraddizioni di un uomo che sente di non prendere parte davvero alle questioni cruciali della vita ma di essersi esiliato nel mondo chiuso delle sue passioni.

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