Eccovi una lista di termini che solitamente non vengono applicati alla saga di Fast and Furious: “realismo”, “verosimiglianza”, “visione documentaristica”, “rispetto delle leggi della fisica”. Stiamo parlando di un franchise che procede spedito un quarto di miglio alla volta e che da più o meno sempre si disinteressa di rispettare regole di coerenza in favore dello spettacolo, degli inseguimenti e pure delle esplosioni; a Vin Diesel e al resto della famiglia non è mai interessato nulla della realtà, alla quale hanno sempre preferito una fantasia che profuma di NOS. Eppure anche in un mondo esagerato e caricaturale come quello di Fast and Furious si può individuare un prima e un dopo; “prima” è quando la saga di Dom Toretto ancora parlava di macchine veloci e di criminali che le guidano, “dopo” è il momento in cui F&F è diventato M:I e ha, per prendere in prestito un’espressione televisiva, saltato lo squalo. Già, ma qual è il momento decisivo, dopo il quale nulla è più stato lo stesso?

Innanzitutto un chiarimento linguistico, nel caso non conosceste la storia dell’espressione “salto dello squalo”. Le sue origini, come accennato sopra, non sono nel cinema ma nella televisione, e fanno riferimento, per farla breve, al momento in cui uno show che fino a quel momento si era distinto per senso della misura decide, in mancanza di idee, di esagerare e buttare tutto in caciara. Nello specifico, la frase nasce grazie a Henry Winkler e a Happy Days: nel primo episodio della quinta stagione, andata in onda nel 1977, i protagonisti vanno in visita a Los Angeles, e Fonzie viene sfidato a dimostrare il suo coraggio facendo esattamente quello che pensate – saltare uno squalo vivo con gli sci d’acqua. La scena venne scritta perché Winkler era realmente un talento dello sci nautico, e lo stunt gli diede modo di dimostrarlo; ma pubblico e critica non reagirono benissimo a quella che venne considerata un’assurdità completamente fuori dal normale tono di un episodio di Happy Days. Riguardiamo un attimo la scena in questione:

 

 

L’episodio, intitolato Hollywood: Part 3, venne ricevuto tra frizzi, lazzi e sfottò vari, e indicato come la dimostrazione perfetta che il team di Happy Days non aveva più il pieno controllo della propria creatura; da allora, ogni volta che una serie TV, specialmente quelle che vanno in onda per un numero cospicuo di stagioni, mette in scena un momento ugualmente assurdo si dice che ha “saltato lo squalo”, e la si dà per spacciata.

Il salto dello squalo è dunque materia televisiva, ma soprattutto negli ultimi anni, con la franchise-izzazione compulsiva di qualsiasi IP e la moltiplicazione esponenziale degli episodi di qualsiasi saga, ha cominciato a filtrare anche al cinema (NB: esiste da qualche anno anche una teorica versione cinematografica del salto dello squalo, e cioè “nuke the fridge”, nuclearizza il frigorifero. Indovinate da quale film è stata ispirata). E Fast and Furious è il franchise perfetto per dimostrarlo: nove capitoli (più spin-off) che sono un costante crescendo di situazioni assurde, che a ogni nuovo episodio mettono in crisi il reparto sceneggiatura (e pure quello stunt) che si trova costretto a superare le vette toccate dal film precedente.

 

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A seconda di quanto sia alta la vostra soglia di tolleranza per le follie che mettono in discussione la fisica newtoniana, è possibile che il vostro personale salto dello squalo di F&F arrivi in un qualsiasi momento arrivato dopo la fine del primo film: già in 2 Fast 2 Furious assistevamo a scene tipo questa, a modo loro profetiche sulla direzione che intraprenderà il franchise da lì in avanti (= un sacco di salti sempre più impossibili), e in Fast & Furious – Solo parti originali, il quarto (o terzo se considerate Tokyo Drift uno spin-off) l’azione abbandonava per la prima volta con decisione il mondo delle corse clandestine per cominciare a introdurre nuove ambientazioni sempre più improbabili (in questo caso i tunnel della droga tra Messico e Stati Uniti).

Fast and Furious 5 è probabilmente il passaggio decisivo nella storia del franchise, e il momento in cui lo squalo comincia a materializzarsi in lontananza. In particolare il climax ambientato tra le strade di Rio, con macchine veloci che si inseguono trascinandosi dietro una gigantesca cassaforte, accarezza più volte e con una certa decisione il sogno di saltare il selace; e forse ci riesce anche, se non fosse che gran parte dell’azione girata per quel film è fatta di stunt clamorosi e fuori scala, con la CGI e gli aiutini digitali ovviamente presenti, ma non ancora così invadenti come capiterà dal capitolo successivo. F&F5 è a un passo dal delirio, ed è anche per questo che è probabilmente l’episodio migliore del franchise: raggiunge apici di spettacolarità che ai tempi del primo film erano impensabili, ma riesce a farlo mantenendosi ancora entro i confini di ciò che è accettabile. Arrivati al quinto film abbiamo accettato che le macchine di Dom e del resto della famiglia sanno fare cose che la nostra utilitaria non può neanche immaginare; e siamo ancora disposti a goderci lo spettacolo di questi ex-criminali trasformatisi più o meno rapidamente in supereroi, senza lamentarci troppo dell’implausibilità di certe scene.

 

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Dove tutto il castello di coerenza crolla rovinosamente è con Fast and Furious 6. È qui che il fandom si divide definitivamente in due fazioni per le quali è impossibile andare d’accordo. Le corse clandestine sono sostanzialmente scomparse, e così vale anche per le tendenze criminali della famiglia: ormai i nostri eroi sono diventati, appunto, eroi, e la loro missione è sconfiggere il male e salvare il mondo, non arricchirsi abbastanza da potersi comprare una flotta di yacht e un piccolo arcipelago nel Pacifico.

(le malelingue potrebbero far notare che questo capitolo coincide anche con l’ingresso nel franchise di Dwayne Johnson)

Ma non è solo un problema di trama, né di certe assurdità da soap opera dozzinale tipo l’amnesia di Letty. No, il vero problema di F&F6 è in una scena in particolare; e anche definirlo “problema” è sbagliato, perché ci sono ottimi motivi per sostenere invece che è in questo momento preciso che Fast and Furious accetta di diventare qualcosa d’altro e abbraccia la sua nuova natura senza vergogna. È tutta una questione di percezione, di quanto in alto avete fissato l’asticella della sospensione dell’incredulità: quanta fatica fate ad accettare una scena così?

 

 

Se la risposta è “tantissima”, il salto di Dom e Letty (chissà perché c’è sempre di mezzo un salto, squali o meno) è la pietra tombale sul vostro rapporto con Fast and Furious; da lì in avanti le cose vanno solo peggiorando, e toccano vette di assurdo che fanno sembrare il carrarmato volante di A-Team un documentario neorealista.

Se al contrario la risposta è “per nulla, anzi che scena fantastica!”, il salto di Dom e Letty è l’inizio di una nuova storia d’amore: da lì in avanti le cose vanno solo migliorando, perché Fast & Furious diventa un franchise nel quale vale tutto e i limiti sono quelli imposti dalla fantasia della produzione.

Entrambe le posizioni sono legittime e sostenibili con argomentazioni valide e logiche, ma di una cosa siamo certi: che facciate parte del team “è troppo” o del team “non è abbastanza”, il salto non-mortale di Vin Diesel e Michelle Rodriguez in Fast & Furious 6 rappresenta il momento in cui avete fatto la vostra scelta definitiva.

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