The Last Duel viene salvato da Jodie Comer.

C’è poco altro da dire.

In un film sulla verità, che triplica un crimine (lo stupro) in tre punti di vista differenti, l’unica soluzione attoriale percorribile è quella della sfumatura. Da una premessa del genere infatti ci si aspetterebbe un film più interrogativo che affermativo. Uno di quelli che richiedono un minimo di partecipazione per ricostruire una quarta versione della storia, cioè quella vera, dall’unione delle precedenti.

Invece The Last Duel si protrae per un’ora e mezzo raccontandoci due versioni, quella di Sir. Jean de Carrouges, marito di Marguerite de Carrouges, e quella del violentatore Jacques Le Gris. Un’amicizia tra i due uomini poi diventata rivalità e infine debito di morte. Ma sono due lunghe indagini su un qualcosa di inesatto. Il primo perché Jean de Carrouges non c’era quando i fatti sono avvenuti, e quindi li apprende dal racconto diretto della donna. Il secondo perché Jacques Le Gris, annebbiato dalla sua ossessione, vive il suo atto senza alcun rimorso. La donna oggetto può essere usata a proprio piacimento, la scarsa conoscenza medievale della biologia (figurarsi della sessualità!), oltre al maschilismo imperante, sono dalla sua parte.

Che questi punti di vista non siano attendibili è chiaro però quando, apprestandosi a entrare nella sezione che narra la verità di Marguerite la didascalia si sofferma proprio sul termine “la verità”. Come a dire: fino ad ora avete assistito a come la società patriarcale e maschilista hanno trovato giustificazioni alle proprie brutture. Ora però raccontiamo i fatti come stanno.

Fortunatamente però Jodie Comer non è della stessa idea della sceneggiatura. Interpreta infatti un personaggio pieno di ambiguità, nonostante i dialoghi a lei affidati siano così netti da tagliare in due ogni immedesimazione. Non c’è dubbio su quello che ha subito, e The Last Duel fa di tutto per togliere anche solo la minima idea che l’atto fosse consensuale, indugiando -pur senza eccedere nella violenza visiva- sullo stupro. 

Ben più misteriose però sono le conseguenze sulla mente di Marguerite. Che cosa le ha fatto il trauma, oltre a generare voglia di rivalsa e giustizia? La tensione, nel momento del duello finale, sta tutta su di lei. Le scende una lacrima sul viso, ma non sappiamo a chi sia donata. Se alla sorte del marito che per lei è disposto a morire, nonostante tra i due non ci sia comunque uguaglianza né un riconoscimento della donna come persona, bensì come proprietà. O forse per il ricordo del dolore subito o la paura di morire e lasciare una vita che, finalmente, le ha donato il figlio desiderato. 

Ridley Scott ritrova sé stesso proprio nel finale di The Last Duel. Mentre in basso si svolge un banale spettacolo di machismo, in alto, tra gli spettatori, avviene il vero dramma. Però per tutto il resto del film queste sfumature crollano sotto un’impostazione brutalmente a tesi. Così sommerso dalla voglia di esprimere la propria idea, per nulla rivoluzionaria e totalmente condivisibile, che sembra supplicare in ogni momento di fare vistosi “sì” con la testa e “no” sconsolati quando gli “uomini fanno gli uomini”. The Last Duel non è un film popolare (l’hanno dimostrato i risultati al box office), ma è un film populista.

Perché cerca ogni mezzo possibile per sottolineare la distanza tra il medioevo e il mondo moderno. “Ricordate: eravamo così, ora abbiamo fatto passi in avanti, ma siete sicuri che personaggi come Jean de Carrouges e Jacques Le Gris non siano ancora presenti nella nostra società?”. Non è così esplicito, ma poco ci manca. Ridley Scott, ma ancora di più i due sceneggiatori Matt Damon e Ben Affleck, non aggiungono niente alla riflessione sul maschilismo e nemmeno sulla condizione delle donne nel medioevo. E va benissimo, se solo tre quarti di film non fossero dedicati a farci pensare, per contrasto, cose che tutti già pensiamo.

 

the last duel

 

Qualche esempio: la condanna femminile della denuncia operata da Marguerite è così smaccata che si legge l’intenzione del regista. Se le donne si sostenessero a vicenda, eliminando il maschilismo interiorizzato, sarebbe più facile far valere i propri diritti. Oppure: il dubbio di Jean de Carrouges nasce proprio da quell’idea di inferiorità della donna-oggetto. Che va eliminato, ieri così come oggi! Ancora: la conoscenza della sessualità e dell’affettività in generale è uno strumento di libertà e democrazia. Non come la Chiesa che, con le sue oppressioni e superstizioni ha condannato molte donne favorendo una società fortemente patriarcale.

Tutti concetti giustissimi. Anzi, sono idee così condivisibili da non sfociare mai in nulla di nuovo. Come se un film sulla guerra volesse per tutto il tempo dire che la pace è una cosa buona (sì, ok, ma chi, sano di mente, direbbe il contrario?). Si potrebbe obbiettare che questo è il lavoro fatto dalla maggior parte dei film sulle persone nere in America, o sullo schiavismo. Per la grande maggioranza dei casi è vero, ma il fatto che sia una retorica diffusa non li rende più validi. The Last Duel ha però un aggravante: la sua struttura. Di film a tesi banali ce ne sono in abbondanza, ma generalmente non scelgono di organizzare gli eventi secondo punti di vista. 

Filosoficamente l’idea è che ci siano tre verità soggettive, ma solamente una oggettiva. E va bene così, si può concordare o meno. Ma poi concretamente i dialoghi affidati ai personaggi sono netti, banali, affermativi. A prendere le frasi fuori dal contesto medievale, sembra di ascoltare chiacchiere di nostri contemporanei tornati indietro nel tempo e che cercano di mimetizzarsi con le persone dell’epoca. Non sono i termini aulici a fare antichità, ma le scelte di argomenti, l’umorismo, le preoccupazioni. Qui invece reagiscono alle situazioni come uomini del presente. Non aiuta nemmeno l’orribile pizzetto tinto di Ben Affleck o l’interpretazione stereotipata della follia di Re Carlo VI. 

Non è questione di realismo. Game of Thrones dava benissimo l’idea di un mondo medievaleggiante pur essendo pienamente un fantasy volutamente esagerato e sopra le righe. Per The Last Duel è proprio un problema di coerenza interna tra intenzioni, esecuzione e scelte stilistiche. Questa incertezza rende faticosissimo arrivare al climax finale. Manca il fascino degli ambienti, persino l’azione è strettissima e confusa, non c’è un respiro cinematografico da grande opera. 

Tutto questo poteva essere salvato dal dramma dello scontro tra due cavalieri rivali. In ballo c’è di tutto: l’onore, il possesso dei territori, la condanna a morte, e (non a caso alla fine dell’elenco) la donna “contesa”. Invece sia Adam Driver che Matt Damon non riescono a far vedere il dramma del rischiare la vita in un duello, le emozioni contrastanti di chi cerca la verità confrontandosi con la propria soggettività e le imposizioni delle credenze. 

Invece Jodie Comer fa di tutto per sfumare il film. Lo prende sulle sue spalle, diventa magnetica quando è in scena e in ogni momento si crede di riuscire ad accedere ai suoi pensieri, salvo poi venire smentiti. È lei l’unica che ha capito il film in cui si trova. Più degli sceneggiatori stessi, Affleck e Damon (insieme a Nicole Holofcener), che danno i volti ai personaggi. Più di Adam Driver e, incredibilmente, più dello stesso Ridley Scott. 

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