Parlare con Antonio Sancassani è come dialogare con una personificazione della sua sala: il Cinema Mexico di via Savona 57 a Milano. Nessuno vive il cinema in maniera così viscerale, appassionata e carnale. Un esercente capace di affezionarsi alle pellicole e adottarle come se fossero di famiglia. Un piccolo film, Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti rimase in cartellone per due anni consecutivi. Per tutta la sua permanenza venne curato: si organizzarono incontri, degustazioni, eventi speciali. Perché Sancassani fa così: non proietta un film, lo ospita. E se gli piace particolarmente gli lascia le chiavi della sala.

È successo con The Rocky Horror Picture Show, film cult di Jim Sharman che, non appena mise piede nel Mexico, diventò l’ospite d’onore dei venerdì sera. Un appuntamento fisso che si è trasformato negli anni, ma che ha trasformato anche la sala stessa facendola conoscere in tutto il mondo. “Quando andai in America per la prima volta mi trovai in una convention di quelle che si facevano quando ancora le distribuzioni avevano i soldi, e io ero un signor nessuno. Invece appena ho detto ‘Mexico’ tutti hanno riconosciuto la sala”, dice Sancassani, “lì ho scoperto che Variety aveva parlato di me e del mio cinema”. 

Non a caso oggi il soprannome del Mexico è The Rocky Horror house. Ce ne sono solo altre 3: a Parigi, Berlino e ovviamente a New York. Le proiezioni sono esperienze uniche: chi entra per la prima volta (un “vergine” quindi) viene segnato con una “v” sul volto. Insieme al biglietto c’è anche un kit all’ingresso. Un giornale, del riso e altri oggetti. Mentre sullo schermo scorre il film, tra il pubblico si svolge un altro spettacolo parallelo. Una compagnia di attori si muove nella sala impersonando i protagonisti e coinvolgendo il pubblico.

La quarta parete non è rotta, è sfondata con tutta la forza irriverente e la voglia di far festa insieme ai Transilvaniani che ballano il Time Warp. Ci si trova a coprirsi con il giornale dagli schizzi d’acqua proprio come Janet (Susan Sarandon) e a inveire contro lo schermo. Non raccontiamo di più, perché The Rocky Horror Picture Show al Mexico è un po’come un rito iniziatico, che bisogna approcciare sapendo il meno possibile.

Alle porte di Halloween ci siamo fatti raccontare da Antonio Sancassani quello che ha visto in questo piccolo film di serie B e l’impatto che ha avuto negli anni, non solo sul suo esercizio, ma su tutto il pubblico. 

Antonio Sancassani Mexico The Rocky Horror Picture Show

La prima domanda è una curiosità un po’ da Guinness dei primati: quante volte l’hai visto?

Fai un po’tu il calcolo. Pensa che se non ci fosse stato il lockdown sarebbero 40 anni che proietto il Rocky Horror nella mia sala. Poi fare happening con il pubblico significa continuare a vederlo per capire cosa aggiungere e cosa togliere. Di solito partivamo verso ottobre e finivamo a giugno. Ovviamente il venerdì sera. Ci sono anni in cui l’abbiamo fatto più volte e altre meno. Non abbiamo uno standard preciso, il Rocky Horror è un qualcosa di anomalo che nemmeno io so definire.

Adesso siete fermi con gli spettacoli?

Sì siamo fermi (ma non con il cinema che continua la normale programmazione). Con la capienza al 100% stiamo pensando di ripartire, ma non se ne parlerà fino all’anno prossimo. Guardo con preoccupazione tutti i giorni i dati dei contagi in aumento. È difficile proporre lo spettacolo in questa situazione. 

The Rocky Horror Picture Show passa al Mexico dal 1981. Ma come è iniziata questa passione? 

Il Mexico è una sala che ha sempre fatto di necessità virtù. Quando l’ho preso in mano io, il biglietto costava 150 lire per vedere due film. Era uno dei tanti cinema in crisi per l’avvento delle televisione private. I locali di periferia o chiudevano o si riciclavano a luci rosse. Io volevo cambiare programmazione, a Milano non c’era un locale che proiettasse i film musicali in maniera continuativa. Io ci ho provato e sono stato fortunato. Non erano molti i titoli, per cui li ripetevo diverse volte.

Ma il film di Sharman è del ’75, tu hai iniziato molto dopo, i conti non mi tornano…

Io l’avevo visto nel ’75 al cinema Durini, in cui lavoravo io, quando era uscito in prima visione, ma fu un flop tremendo. Non ci credeva nessuno, mi dicevano “c’è questo film della Fox, ma abbiamo solo i manifesti”. Ma quando ho visto i 70×100 con la bocca rossa sul nero ho pensato che fosse già lì il film. Quando anni dopo ho preso il Mexico ho pensato di passare il Rocky Horror. L’ho messo in programmazione ed è durato un paio di mesi.

E l’idea di esportare il modo di visione americano? Con il pubblico che lancia le cose e insulta il film…

Una volta ero in sala e ho visto degli americani che si mettevano a metà fila e parlavano allo schermo. Mi sono avvicinato e gli ho detto: “ascolta, un altro posto dove andare a rompere i coglioni non ce l’avete?”.

E così quello mi ha risposto: “guarda che il Rocky Horror si guarda così, si parla!” Il locale era molto modesto all’epoca ed era in chiusura, quindi non mi sono fatto problemi.

Tempo dopo è uscito il film di Alan Parker, Saranno famosi. Siccome a me piace stare in sala e ascoltare il pubblico cosa ne pensa sentivo che quelli che vedevano Rocky Horror facevano le citazioni di quel film. Così il giorno dopo sono andato vederlo e a un certo punto c’è una sequenza che mi ha folgorato. Gli aspiranti attori dicono “andiamo a vedere The Rocky Horror Picture Show!”. Entrano in un locale di periferia di New York, con una pedana, con poltrone in legno e pieno di giovani. Assomigliava alla mia sala. Allora ho pensato “perché non posso fare la stessa cosa anche io?“.

Così hai cercato gli attori?

Io conoscevo bene Claudio Bisio, che allora frequentava la scuola di recitazione del Piccolo. Mi dice: “sai che facciamo il saggio di fine anno con il Rocky Horror?”. E allora io gli ho proposto: “Claudio, portare fuori i costumi al venerdì sera, adoperarli il sabato e riportarli indietro lunedì no, vero?”. “Si può fare!”.

Abbiamo iniziato così, con Bisio che aveva ancora un po’di capelli. E poi è stata una bellissima avventura.

The Rocky Horror Picture Show fame

Tu lo consideri più uno spettacolo o un film?

Si può fare questa performance perché è nato dallo spettacolo di Richard O’Brien. Ha i tempi teatrali. Per questo non c’è un’altra opera in cui si può fare questa cosa che si sono inventati gli americani di recitare sulle immagini. Non siamo i soli, ovviamente. A Parigi fanno lo spettacolo da più tempo di noi. Ogni tanto la compagnia di Berlino viene qui a fare un gemellaggio con quella di Milano.

Il film è stato adottato dalla comunità LGBTQ+ come un cult di nicchia. Pensi che oggi sia ancora così o con il cambiare dei tempi è diventato un po’ un cult di tutti?

È di tutti, assolutamente di tutti. Io ho avuto il privilegio di avere avuto coppie nella sala che mi hanno detto che si sono conosciute nel mio cinema e avevano dietro il figlio di 14-15 anni a vedere lo spettacolo. Io mi sono sentito un po’più vecchio, ma è un’emozione che non so quanti miei colleghi abbiano potuto avere. Sono delle cose che ti ripagano. 

Incredibile, veramente. E qual è la reazione che più ti stupisce nel pubblico?

L’assiduità. Mi stupisce sempre. C’è gente che l’ha visto 60 volte. Trovo ovunque persone che conoscono il Mexico e The Rocky Horror Picture Show perché i genitori li avevano portati a vederlo quando erano piccoli. È la parte più bella del cinema.

Parliamo proprio di questo: la visione unica. Ripenso ai callback (le risposte alle battute del film), non esiste nulla di più viscerale e sincero di questo in sala. In fondo non è così che si dovrebbe vivere il cinema? Come un dialogo con il film?

Woody Allen lo fa spesso, come ad esempio ne La rosa purpurea del Cairo. Parla proprio di questo, il cinema nel cinema. Il pubblico poi si adatta e cambia inspiegabilmente. In certi periodi vengono determinati gruppi di persone, e poi non li vedi più, ma al loro posto arrivano altri. C’è stato un periodo in cui a ogni replica arrivava uno con la Rolls-Royce, parcheggiava, vedeva il film da solo e se ne andava. Ma queste cose te le restituisce la sala solo se la vivi da dentro.

I callback poi cambiano di volta in volta, si adattano, è un modo per divertirsi e la gente si diverte con niente, ma bisogna essere bravi a trovare quel niente!

The Rocky Horror Picture Show è arrivato su Disney+, ed è passato molte volte in televisione, ma a chi vuole vederlo per la prima volta cosa consigli? Prima se lo guarda a casa e poi da te o è meglio una prima volta al Mexico non sapendo nulla?

Io credo che se venisse prima in sala troverebbe una sorpresa che in televisione non potrebbe più rivivere. C’è dentro tutto, è l’essenza del cinema. Il film è fatto in maniera molto intelligente, se lo guardi e riguardi trovi citazioni e particolari molto interessanti. Io sono uno che la settima arte vuole viverla dove è stata pensata. Quale credi sia il futuro di questo modello?

Io credo che il lockdown ci abbia tolto molto, ma confido che la gente prima o poi tornerà alle origini perché il cinema è un luogo di aggregazione, per stare insieme. Vedere un film come questo in casa è impossibile da apprezzare come dovrebbe.

Qual è stato il tuo primo cinema? Come è nata la passione?

Io mi ritengo una persona fortunata perché ho fatto il mestiere che mi piaceva. Non vengo da una famiglia nel settore. Mio papà aveva solo due mucche. E al cinema si andava una volta l’anno. Da piccolo avevo il pallino di andare in cabina, dove c’era l’anima del cinema. Sono nato a Bellagio e lì ho gestito la mia prima sala. Ho realizzato lì il mio sogno di entrare dove c’era il proiezionista. Mi sembrava un’astronave, era il mio cinema paradiso. Ora è chiuso, e da 20 anni lì non c’è più nessuna sala. Per molti anni ho evitato di passare davanti all’ex Cinema Vittoria. È stato un saluto struggente di una parte di vita indimenticabile.

The Rocky Horror Picture Show è ora disponibile su Disney+

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