Heavy Metal, quarant’anni di sesso, droga e rock and roll
Heavy Metal, opera animata di culto ispirata alle storie sci-fi dell’omonima rivista, compie quarant’anni, ed è ancora uno spettacolo
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Come spesso capita in questi casi, Heavy Metal venne inizialmente accolto malissimo, salvo poi crescere nella considerazione critica – anche grazie a un’uscita in home video che arrivò ben quindici anni dopo quella in sala e che aiutò nella rivalutazione. A dirla tutta venne accolto malissimo solo dalla critica: il pubblico lo premiò con incassi più che soddisfacenti (20 milioni di dollari a fronte di un budget inferiore ai 10), e il marchio, anche grazie al fatto che la rivista omonima continua a venire pubblicata ancora oggi, non ha mai perso di valore, tanto è vero che il film ha già conosciuto un sequel (Heavy Metal 2000) e una re-interpretazione in versione serie TV (Love, Death and Robots).Ma siamo partiti dal fondo, dal momento in cui Heavy Metal è stato liberato sul mercato e ha cominciato a fare vittime a colpi di sangue, tette e stazioni spaziali. In realtà la storia del film è interessante fin dall’inizio, da quella produzione che, per risparmiare tempo e non sprecare forza lavoro, venne distribuita tra un numero non meglio precisato di studi differenti. Ciascuno di questi lavorò a un singolo segmento della storia, e al regista Gerald Potterton toccò di fatto l’opera di armonizzazione finale di materiale già creato altrove; nonostante la produzione diffusa, comunque, gran parte del film è basato sulla stessa tecnica, il rotoscopio, il che serve a dare a Heavy Metal un look unitario nonostante la frammentazione della lavorazione.
L’altro elemento che contribuisce a tenere insieme il film è quello che citavamo prima; la palla verde fosforescente composta di puro male (il Loc-Nar) è una classica idea da Heavy Metal, e quindi anche, per estensione, da heavy metal, inteso come il genere musicale battezzato per la prima volta in questa canzonee il cui immaginario, soprattutto all’inizio degli anni Ottanta, si nutriva degli stessi elementi tipici delle storie pubblicate sul magazine: deserti e macchine rombanti, belle donne formose e armi da fuoco, esplosioni e alieni, paesaggi urbani devastati e altri mondi popolati da feroci creature guerriere.
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Ci siamo un po’ persi: volevamo dire che la palla verde è uno dei fili rossi (perdonateci) che tengono insieme Heavy Metal, e siamo finiti a parlare di musica. La smettiamo subito, segnalando solo che la colonna sonora di questo film è una delle più clamorose collezioni di pezzi da novanta dell’hard rock e dell’heavy metal degli esordi, quello che precede anche l’esplosione britannica e subito dopo quella americana: Black Sabbath (nella versione con Dio, purtroppo), Grand Funk, Cheap Trick, Journey, Nazareth, Blue Öyster Cult… se al tempo fosse esistito Spotify sarebbe stata una playlist fantastica.
Detto ciò, torniamo all’ormai famigerata palla verde: la cornice dell’antologia è la storia di una ragazza, la figlia di un astronauta il quale, di ritorno dal suo ultimo viaggio, riporta a casa un misterioso artefatto alieno. Che si rivela essere, appunto, tutto il male dell’universo concentrato: prima vaporizza l’astronauta, poi costringe la ragazza ad ascoltare le sue storie. Che sono poi i singoli capitoli di questa antologia: ognuno di essi ruota in un modo o nell’altro intorno a questa misteriosa palla verde senziente, che spinge chiunque ne venga in possesso a compiere atti atroci e che è anche in grado di fare… cose, dal vaporizzare la gente, appunto, al resuscitare i cadaveri sotto forma di zombi con gli occhi fosforescenti.
È chiaro da queste poche righe che Heavy Metal non vuole essere un film particolarmente coerente, e soprattutto rifugge la morigeratezza e il buongusto come una persona allergica ai gatti rifugge le palle di pelo. Al contrario, è un’esplosione di assurdità visive, una power fantasy continua nella quale protagonisti ambosessi dal fisico anonimo e dalla personalità altrettanto blanda si riscoprono eroi o eroine catapultati in mondi fantastici (gli episodi Den e Taarna, che sembrano usciti da una rivista pulp sci-fi degli anni Trenta o da un romanzo di Jack Vance). Ma è anche un film citazionista che piega, per esempio, le regole del noir a quelle della fantascienza e delle palle verdi malvagissime (Harry Canyon, praticamente Raymond Chandler cyberpunk, o Collateral virato fantascienza se preferite). È un film che si diverte a giocare con l’horror (il brevissimo e fenomenale episodio B-17) e che non si fa problemi a sbattere viscere in primo piano in una scena, e corpi nudi intrecciati nell’atto dell’amore in quella successiva.
È, in altre, più semplici parole, un’efficacissima trasposizione non solo di alcune storie a fumetti, ma di un intero immaginario che all’inizio degli anni Ottanta creò una piccola-grande rivoluzione, prima in Francia, poi negli Stati Uniti, poi nel resto del mondo. Heavy Metal è, in un certo senso, uno dei migliori cinecomic mai fatti. Ed è chiaro che il termine è, nella sostanza, quanto mai fuori luogo, soprattutto vista l’accezione che ha assunto negli ultimi anni, ma formalmente è di questo che stiamo parlando: un fumetto trasposto per il cinema sfruttando tutte le nuove possibilità offerte dal cambio di mezzo (il già citato Harry Canyon non funzionerebbe altrettanto bene senza la perfetta voce di Richard Romanus).
Nel giorno del suo quarantesimo compleanno, lo vogliamo ricordare con l’omaggio che gli fece South Park, e anche con le parole usate per descriverlo dalla storica penna del New York Times Janet Maslin, che riassumono alla perfezione tutto quello che c’è di sbagliato nel modo in cui la “critica seria” tratta capolavori come questo: «Chi crede che un’ora e mezza passata con un fumetto non sia troppo, apprezzerà molto Heavy Metal».
Ti sveliamo un segreto, Janet Maslin: non è troppo.
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