Bastano poche parole per introdurre i grandi autori. Nel caso di un maestro come Vittorio Giardino, siamo certi che basti il nome; a Lucca Comics & Games 2018, dove ha lasciato l’impronta delle proprie mani per la Walk of Fame, abbiamo avuto il privilegio e l’enorme piacere di incontrarlo e intervistarlo per voi.

Ringraziamo il maestro per la squisita disponibilità e benevolenza dimostrataci, nonché Rizzoli Lizard per la collaborazione. Vi lasciamo alla nostra lunga chiacchierata, durante la quale abbiamo parlato anche dell’ultimo capitolo di Jonas Fink, fresco di nomination al Premio della Critica dell’Association des Critiques et des journalistes de Bande Dessinée.

 

Ciao, Vittorio. È un grande onore averti con noi su BadComics.it, benvenuto! Vorrei tornare brevemente agli inizi della tua carriera, perché c’è un episodio che mi ha sempre colpito in particolare. Eri un ingegnere e professionista affermato, ma a un certo punto ha deciso di mollare tutto per dedicarti al Fumetto. Cosa ti ha spinto a questa scelta coraggiosa e come è stato l’approccio a questo mondo?

Innanzitutto grazie a voi per l’ospitalità. Partiamo dal motivo che mi ha spinto a farlo: la passione per il disegno, oltre a un’altra sfilza di motivi, troppo lunga di sciorinare ora. La passione per il disegno è comunque la ragione principale. Adoro disegnare fin da quando ero molto piccolo. Per ciò che riguarda il coraggio della scelta, non mi trovo d’accordo con te, nel senso che credo che in realtà non ebbi granché coraggio. In fondo sapevo di avere le spalle coperte, essendo di origini borghesi o medio borghesi, come si diceva una volta. Inoltre, anche mia moglie aveva un lavoro. Avevo già due figlie ma sapevo che in caso di necessità estreme c’era qualcuno che poteva aiutarmi. Per cui, è stato sì un salto nel vuoto, ma con il paracadute.

Devo confessare, però, che è stata una decisione presa nella più totale incoscienza, in quanto non conoscevo per nulla il mondo del Fumetto dal punto di vista professionale. Sono sempre stato un appassionato lettore di fumetti, ma non sapevo cosa volesse dire lavorarci. Ricordo gli inizi, che superai velocemente, per fortuna: furono di un’ingenuità totale. Mi fu di grandissimo aiuto la frequentazione di una radio privata. Stiamo parlando del 1978, non c’era ancora il web, ma per fortuna c’erano le radio. Su un’emittente privata di Bologna veniva trasmessa la rubrica “Segnali di fumo”. Volli conoscere il suo curatore, che parlava con enorme competenza di Fumetto e mi poteva essere utile per approcciarmi al lato professionale della Nona Arte. Si trattava di Luigi Bernardi, grande intellettuale, scrittore e critico, nonché in futuro anche editore. Luigi mi spalancò letteralmente gli occhi sull’aspetto professionistico del Fumetto.

Hai accennato al fatto che fin da piccolo eri un appassionato lettore di fumetti. Quali erano le tue letture preferite, allora?

Da bambino, erano tipicamente fumetti Disney. E si sa che ciò che si legge da bambino resta tutta la vita. Così è anche nel mio caso. Io sono affezionato a “Topolino” e “Paperino” in maniera viscerale, anche se confesso che sono legato in maniera affettiva più ai personaggi dei disegnatori della mia gioventù, quindi Carl Barks e Floyd Gottfredson, che sono quelli che mi hanno veramente formato. Più tardi, però, verso la maggior età, il grande spartiacque fu “Linus”. Sono un lettore di “Linus” dal numero 1.

Lì entrai in contatto per la prima volta con un tipo di Fumetto più adulto e più colto. Capii che attraverso il Fumetto si potevano raccontare anche storie più complesse di quelle che avevo immaginato fini ad allora. Mi si aprirono potenzialità mai concepite prima da questo mezzo espressivo. Due esempi su tutti sono Hugo Pratt, con “Corto Maltese”, e Guido Crepax, con “Valentina”. Il terzo momento fondamentale della mia formazione, collocabile ormai ai tempi in cui mi affacciavo all’ambito professionale, è legato alle bande dessinée più innovative dell’area franco-belga, quelle di Philippe Druillet e Moebius.

Hai avuto dei maestri, dei punti di riferimento che hanno orientato il tuo modo di fare Fumetto?

Sì, certamente. L’elenco sarebbe lunghissimo. Io potrei definirmi quasi un ladro professionista, nel senso che rubo idee da svariate fonti, molto più spesso Cinema e Letteratura, ma anche dal Fumetto. Oltre ai già citati Barks e Gottfredson, mi hanno influenzato molto Hugo Pratt e, tra i viventi, qui presente a Lucca, José Muñoz. Le mie prime storie in bianco e nero, di genere noir, hanno rubato molto da “Alack Sinner” e contemporaneamente da un autore francese molto noto in patria, meno in Italia, che è Jacques Tardi. Sono debitore a loro dei miei inizi grafici.

Ma ce ne sono molti altri. Nelle mie prime tavole, pubblicate solo su una fanzine, e direi piuttosto bruttarelle, imitavo – o rubavo, insomma – il grandissimo Dino Battaglia. Credo che Moebius – sono classifiche stupide, me ne rendo conto – sia il più grande disegnatore contemporaneo; inarrivabili sono la leggerezza e il dinamismo dei suoi personaggi, che sembrano volteggiare fuori dalla pagina. Io ho cercato di rubare, di riprodurre quel modo di esprimersi, piuttosto che imitare la sua arte.

Abbiamo parlato delle tue influenze. Come e quanto si è evoluto il tuo stile e il tuo tratto in tanti anni di carriera?

Dalle prime tavole direi moltissimo. Luigi Bernardi mi confessò, anni dopo, che la prima volta che vide i miei disegni pensò che fossi totalmente negato, che non avrei mai fatto strada. Non aveva torto, erano cose veramente brutte e io me ne rendevo conto. Mi ci è voluto un po’ di tempo per imparare, anche perché sono un completo autodidatta. Sono un ingegnere e non ho mai fatto studi e corsi di tipo artistico. La mia tecnica è tutta frutto di esperienza, non di scuola.

Detto questo, non sono mai neanche andato alla ricerca di uno stile personale. Quello che mi ha sempre interessato è raccontare storie. Mi ritengo più un autore che un artista, nel senso che sono prima di tutto uno scrittore che disegna le proprie storie. In sintesi, lo stile di disegno che ho raggiunto è il modo più funzionale che ho trovato per illustrare le storie che voglio narrare: non mi sono mai posto un problema estetico puro e semplice. I miei problemi fondamentali sono narrativi.

In quanto autore completo, come avviene per te il processo creativo? Come nasce e si sviluppa una tua storia?

Di solito le mie storie cominciano molto da lontano e quasi sempre hanno origine da esperienze, emozioni e viaggi risalenti a momenti lontani nel tempo che non penso affatto di tramutare in una storia. Questi ricordi riemergono in un secondo tempo e, filtrati dalla memoria, mi suggeriscono un racconto. A quel punto, comincio a lavorarci sopra. Prima di arrivare a disegnare le pagine iniziali, però, il percorso è molto lungo – può durare anche un anno – ed è fatto di schizzi, bozze, ricerche d’archivio, appunti e altro ancora. Per farla breve, quando inizio a illustrare la prima pagina che andrà in stampa ho già in mente in modo chiaro l’intera storia, fino all’ultima tavola, altrimenti non comincerei neanche. Non credo alla possibilità di combinare qualcosa di buono andando avanti a tentoni, scoprendo nel prosieguo gli sviluppi della trama.

Come diceva Pratt, le cose più importanti di una storia sono l’inizio e la fine: in mezzo ci si può dilungare e si può divagare, ma l’inizio e la fine devono essere ben chiari e strettamente collegati. Aggiungo una cosa: nella mia carriera ho avuto una fortuna indicibile, inimmaginabile, perché il mio modo di lavorare è il più bel modo di lavorare che si possa immaginare. Sono io a scegliere gli argomenti, sono io a scegliere le storie e la loro lunghezza e sono io a scegliere i tempi di realizzazione; non ho vincoli di sorta. Magari, i miei editori cercano di spronarmi – diciamo così [Ride] – ma io ci metto i tempi che voglio o meglio che sono necessari. Credo di essere davvero un privilegiato da questo punto di vista.

Utilizzi le innovazioni tecnologiche per fare Fumetto o sei rimasto legato a carta e penna?

[Ride] Mi hai guardato bene in faccia? Hai visto il colore della mia barba? Scherzo, ovviamente. C’entra l’età, ma è soprattutto una scelta. Io amo molto la dimensione artigianale del lavoro: amo le carte, gli inchiostri, gli acquerelli e tutto il resto. Uso il computer solo per le mail, e non si trova nel mio studio.

Aggiungo una piccola osservazione a beneficio dei miei colleghi più giovani o aspiranti tali che utilizzano strumentazione digitale: si possono fare cose straordinarie con il computer, ma se lo si usa in maniera esclusiva, un artista alla fine si ritrova in mano solo una cartella di file. È un consiglio di bassa lega, meramente economico: recentemente si è sviluppato un mercato fiorente di tavole originali, e decidere di lavorare solo in digitale può significare la rinuncia di una considerevole fonte di guadagno. In Italia il fenomeno è ancora agli inizi, ma in altri paesi si guadagna di più vendendo originali che grazie ai diritti sulle proprie opere. Questo mondo del Fumetto – siamo sinceri e non facciamoci illusioni – non dà grandi guadagni. Io esorterei i giovani a usare il computer con moderazione e soprattutto ad avere degli originali cartacei, perché vendere un file è tutt’altro che facile.

Ieri hai lasciato l’impronta delle tue mani per la Walk of Fame di Lucca Comics & Games e hai ritratto alcuni dei tuoi personaggi più conosciuti e amati. Ti chiederei di indicarcene tre, oppure tre opere, che rappresentino i momenti cruciali della tua lunga produzione.

Io direi più che altro tre personaggi, piuttosto che tre opere. Il primo è Sam Pezzo, perché è il personaggio che rappresenta il mio debutto vero e proprio come professionista. È un po’ acerbo, sotto certi punti di vista, ma gli sono molto affezionato.

Il secondo, fondamentale, è Max Fridman e in particolare la storia d’esordio, “Rapsodia Ungherese”, perché ha deciso il mio destino professionale, lo spartiacque che ha sancito il fatto che potessi mantenermi facendo fumetti.

Il terzo personaggio è senza dubbio Jonas Fink, che grazie all’ultimo capitolo sta riscontrando apprezzamenti anche fuori dal Fumetto. Sono totalmente sorpreso da quest’accoglienza e da questo successo inaspettato. Non so se si rifletterà anche nelle vendite. C’è una bella differenza tra recensioni positive e vendite, però le recensioni sono state tutte buone e sono apparse sui maggiori quotidiani, su televisioni e riviste di settore. Io, come al solito, ho realizzato la storia perché mi interessava e valeva la pena farla; questa dovrebbe essere sempre la regola, valida per chiunque. Se poi arriva il successo, dipende dalle storie non dal suo autore.

Per concludere questo discorso, da quando è uscito in Francia, nel gennaio 2018, mi sono pervenuti inviti da tantissime fiere e manifestazioni. Ne ho dovuto, mio malgrado, rifiutare non pochi ed è un anno che giro in lungo e in largo, non solo per l’Italia. Mi sento pure un po’ stanco ora! [Ride]

Veniamo a “Jonas Fink” e al capitolo finale della saga: “Il libraio di Praga”. Perché vent’anni di attesa, dal secondo episodio, per concludere l’opera?

Questa è una domanda inevitabile che giustamente mi hanno fatto in molti e merita una risposta. Tra le prime due parti e quest’ultima sono effettivamente passati ventiquattro anni, una vita. “Jonas Fink” è nato dopo lo shock della caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre del 1989. Quando mi sono messo al lavoro, avrei voluto portarla a compimento. Come dicevo, mi ci vuole tempo per finire un libro e nel frattempo era scoppiata la guerra civile in Jugoslavia. Io mi lascio spesso trasportare da quanto succede nel mondo. Da tempo valutavo la possibilità di fare un fumetto sulla guerra civile spagnola e ho deciso che quello era il momento giusto, con lo scoppio di un’altra guerra civile nel cuore dell’Europa. Così ho abbandonato “Jonas Fink” e mi sono dedicato a un altro progetto, che si è trasformato nell’opera “No Pasaràn”. Credevo di metterci un po’ meno, e invece mi ci sono voluti più anni.

Quando finalmente l’ho finito, ho ripreso in mano “Jonas Fink” per dargli la giusta conclusione. La prima parte era uscita nel 1994, l’ultima nel 2018. Significa un notevole ottimismo da parte mia! [Ride] Non era detto che dopo ventiquattro anni sarei stato ancora qui per farlo, e soprattutto che i lettori si sarebbero ricordati del titolo così tanto tempo dopo! Ho avuto questa fortuna e questo onore, e non posso che ringraziare il cielo di tutto ciò.

 

Vittorio Giardino