Venezia 74 - La sezione sulla Realtà Virtuale contiene due gioielli clamorosi

Per la prima volta in un festival di cinema c'è una sezione dedicata ai progetti in Realtà Virtuale, ne abbiamo provato diversi scoprendo dei gioielli

Critico e giornalista cinematografico


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La sezione Realtà Virtuale di Venezia ha un concorso e un fuori concorso, una giuria capitanata da John Landis e tutte opere inedite in anteprima mondiale (tranne due scelte tra il meglio uscito quest’anno nel settore). Insomma è l’appuntamento più completo di tutti nel settore, senza alcun dubbio. Siamo andati a provare quanti più progetti è possibile nella sua sede lo spazio sull’isola Lazzaretto Vecchio (a 10 minuti di distanza dai luoghi del festival da colmare con una navetta-motoscafo).

Ci sono tre tipi di realtà virtuale: le installazioni, gli stand-up (quelle da fare in piedi) e il VR Theatre, quelle in cui si sta seduti, si può guardare in tutte le direzioni ma non muoversi nel mondo virtuale.
I progetti presentati sono 22 e non era possibile provarli tutti in una sessione sola, quindi abbiamo scelto anche in base a quanto sembrassero promettenti, cercando di avere uno spettro ampio sui tre tipi di RV per poter dare un giudizio. Il risultato è stato molto più che confortante.

Prima di passare al racconto dei progetti occorre specificare che chi scrive ha provato tutte le realtà virtuali disponibili nei festival di cinema europei degli ultimi anni, più diverse tipologie di ultima generazione di carattere videoludico, e nulla ha superato quel che è in mostra nella sezione Venice VR.

VR THEATRE

Si tratta della parte più simile al cinema. Si sta seduti su sedie girevoli e ci si guarda intorno. I visori sono telefoni cellulari Samsung, quindi non il top della gamma e nemmeno della risoluzione.

Gomorra VR - We own the streets di Enrico Rosati

Sulla carta il progetto meno promettente, una versione di qualche minuto di Gomorra, la serie, girata in Realtà Virtuale. Una trama molto esile e in pieno stile Gomorra (una coppia di ragazzi ruba delle armi ma viene fregata e gli uomini di Malammore li inseguono e beccano). Più un’apertura e chiusura affidate ad un monologo di Marco D’Amore/Ciro di Marzio e un pianosequenza di Genny Savastano. Cioè due talent che fanno un’apparizione e altri attori che svolgono un corto tutto in RV.
Il risultato invece è sorprendente. Perché il corto ha la medesima fotografia, i medesimi ambienti, i medesimi costumi, taglio e tono della serie, è quel mondo che già ben conosciamo ma ripreso a 360°. Si parte con un drone su Scampia poi si va nei garage, nelle case distrutte e in costruzione, c’è una grande scena sui tetti e una drammatica con pistole. A tutti gli effetti è Gomorra, senza freno a mano (anzi diretto molto bene davvero!), ma con la possibilità di guardarsi intorno. E proprio l’idea di applicare questa tecnologia ad un prodotto che si fonda così tanto sul suo ambiente e sui suoi luoghi è perfetta. Delle RV provate sembra la più adatta al cinema.

Bloodless di Gina Kim

Corea del Sud e sangue nel titolo, sembrava difficile sbagliare. Invece sì. Bloodless è una maniera di mostrare qualche minuto in alcuni punti di un luogo tra Corea del Nord e Sud in cui i militari americani hanno il permesso di fare esercitazioni e mettere basi. Da decenni ormai è una terra di nessuno. Tuttavia c’è una città e soprattutto c’è un traffico di prostituzione elevatissimo.
Gina Kim piazza la sua VR Camera in punti strategici per riprendere il niente, la quotidianità delle strade con i suoi rumori, gente che passa, prima di giorno, poi di notte. Ad un certo punto si sentono passi, arriva una donna che tornerà in tutte le prossime inquadrature. Possiamo guardare dove vogliamo ma sentendo i passi cerchiamo lei. Si tratta di una prostituta. Dopo diverse strade alla fine ci si trova in uno squallido cubicolo minuscolo, una cella senza sbarre ma con una porta, un luogo in cui supponiamo essere dove dorme. In questo luogo terribile e angusto da sotto una coperta poggiata per terra iniziare ad uscire del sangue, prima un rivolo poi più copioso. Fine.
Insignificante.

Miyubi di Felix Lajeunesse e Paul Raphael

Non è un inedito ma uno dei progetti scelti tra il meglio prodotto quest’anno, è un mediometraggio di 40 minuti, quindi molto lungo. Tutto è visto dal punto di vista di un robot (noi che guardiamo) regalato a Natale da un padre ad un figlio nel 1982. Uno dei primi prototipi di robottini giocattolo, Miyubi è acceso in varie situazioni. Prima ovviamente a Natale, quando è scartato, poi in camera del ragazzo, poi a scuola, poi in camera del fratello ecc. ecc. fino a che non inizia a malfunzionare e verrà sostituito. Intanto però assisteremo di scena in scena ai problemi del nucleo familiare.
Qui la VR è un trucco per far entrare il pubblico dentro la famiglia, è usata come telecamera nascosta (anche se come sempre possiamo guardare dove vogliamo), non c’è nessun vero valore aggiunto. La scena si svolge quasi sempre in un punto solo, guardare altrove non ha senso. In più è anche recitato abbastanza male. Solo la ricostruzione d’epoca è fatta bene, tutti gli ambienti sono (necessariamente) in tono e la casa sembra quella di Laura Palmer. Per questo forse la cosa migliore è il sospetto che ci sia del pauroso, del marcio dietro alle porte. Ma ovviamente non succede mai niente, è solo un paranoia da spettatore.
Strano che sia tra i migliori dell’anno.

INSTALLAZIONI

Come dice la parola sono installazioni artistiche che hanno un carattere narrativo ma si compongono di elementi nel mondo reale con cui interagire, controlli, stanze e non esistono solo nel mondo virtuale.

La camera insabbiata di Laurie Anderson e Huang Hsin-Chieng


Si chiama così, in italiano, l’installazione a cui ha contribuito Laurie Anderson. Il set è quello di HTC Vive e si sta in piedi dentro una tenda, con il visore indosso e i due controller in mano.
Si entra in una tenda ma non c'è un vero e proprio motivo. Il mondo in cui è ambientato è un non-luogo nero, come fosse lo spazio, in cui al posto delle stelle ci sono lettere dell’alfabeto ed esistono dei giganteschi cubi. Muovendo i controller si vola, si passa accanto ai cuboni giganti o si entra dentro. Le attività da fare sono tante (un totale di 20 min), si va sott’acqua, si entra in una zona con delle parole, una con un alberone… sono tutte esperienze da fruire volandoci dentro e ascoltando la voce di Laurie Anderson che parla.
Contenutisticamente poverissimo è però un piacere videoludico perfetto. La tecnologia funziona e si vola liberi (il free roaming è la cosa migliore), si passa in spazi angusti e si ha la sensazione di poter fare tutto.
Liberatorio e immersivo.

Alice, The Virtual Reality Play di Mathias Chelebourg e Marie Jourdren

Attenzione! Questo è un caso a sé. Si tratta del progetto più completo, audace e clamoroso visto, un’eccellenza a tutti gli effetti.
Si parte da fuori una stanza chiusa, senza visore e senza sapere niente. Arrivato il nostro turno l’esperienza comincia quando si apre la porta e una persona, con gran fretta ci fa entrare. Dentro la grande stanza è resa piccola da una tenda che ci costringe a stare in un corridoietto stretto. Siamo in gran ritardo, ci viene detto, tocca sbrigarsi, lasciamo l’orologio, il telefono e tutto (ancora non abbiamo indossato il visore). La persona ci spiega che potremo toccare tutto quello che vediamo, parlare con tutti i personaggi e anche mangiare quel che ci viene offerto di mangiare. Passiamo attraverso la tenda e siamo in un altro ambiente, un poco più grande, uno oltre il quale c’è un’altra tenda ma subito prima il visore da indossare. Lo indossiamo, mettiamo le cuffie nelle quali sentiamo sempre la persona che frettolosissima ci ha fatto indossare il tutto mentre blatera su quello che va fatto e non va fatto, ma la sua voce è sempre più distante e remota mentre un’altra ci chiama per nome. Con il visore vediamo uno scranno con una scatola di legno in cima, avvicinandosi e provando a toccarla questa scatola c’è. Cioè è evidente che c’è un equivalente nel mondo vero nella posizione giusta per sentirla, realtà virtuale e reale coincidono. Ma è anche evidente che qualcuno ha aperto la tenda e abbiamo avuto accesso ad un’altra area più ampia. Nella scatola ci sono delle carte che si mettono da sole a forma di castello, muovendo le mani le facciamo cadere (non ci sono nel mondo vero queste) e il castello si riforma.

Mentre avviene questo arriva un coniglio che ci riconosce come Alice, è in grafica poverissima ma è evidente il perché, il coniglio fa domande e noi possiamo rispondere, non è una creazione, è un attore catturato in tempo reale in motion capture. Interagisce, fa domande, insegna una filastrocca e poi, visto che c’è poco tempo, scappa. Compare un buco nel muro, con erba tutto intorno e poi terriccio dentro, è piccolo non ci si passa ma consente di vedere dentro un altro ambiente. Avvicinandosi per guardare si sente l’erba intorno al buco e ci si può appoggiare per guardare dentro le peripezie del coniglio in un ambiente escheriano.
Poi toccherà ad Humpty Dumpty, che cadendo si rompe come un uovo alla piastra e ne possiamo sentire la consistenza gelatinosa, ma sentiamo la presenza anche di altri scranni, piatti e poi lavagnette che volano da prendere al volo (probabile che qualche attore la muovesse lasciandola non appena il soggetto con il visore la prende). Poi si avverte odore di fumo e siamo con il Brucaliffo che ci interroga su quanto ci è stato detto in precedenza, bisogna essere più furbi di lui, fregarlo con le parole e la logica ed essendo un attore che risponde non è necessariamente facile. Ci farà mangiare un fungo che vediamo con il visore ma allungando la mano si sente, c’è. Con un po’ di coraggio lo si mette in bocca (è una meringa) e si cresce. Finendo in un luogo di scacchi dove cercare di agguantare una corona. Il gioco è avvincente, appena ci si avvicina la corona si allontana, la si segue cercando di prenderla fino a che sembra quasi di avercela fatta ma arriva di nuovo la voce dell’uomo che all’inizio ci ha fatto entrare, ci chiama da lontano e ci leva cuffie e visore. Siamo nella stanza iniziale con tutte le tende chiuse e lui ci dice “Ti sei addormentato. Cosa hai sognato?”.
Semplicemente perfetto.

STAND UP

In questa categoria stavano i progetti di realtà virtuale che non possono essere fruiti da seduti ma prevedono, per un motivo o per l'altro che il soggetto stia in piedi e possa muoversi nell'ambiente virtuale.

Snatch VR Heist Experience di Rafael Pavon e Nicolas Alcala


Con un titolo così era impossibile non provarlo. Eppure questa specie di spin-off di una serie Crackle con Rupert Grint è una delusione. Il visore era della Playstation 4 con tanto di joypad della console.
In una stanza con una grande cassaforte 4 personaggi litigano, forse arriva la polizia e non sanno come aprire la cassaforte. C’è un enigma, lo dovranno risolvere con una combinazione di numeri e poi, joypad alla mano sarà chi indossa il visore a mettere in atto la combinazione, girando le rotelle della cassaforte per aprirla.
Scemissimo.

Dear Angelica di Saschka Unseld

Saschka Unseld è l’autore di The Blue Umbrella, il corto Pixar sui due ombrelli che si innamorano in un giorno di pioggia. Questo progetto è uno dei due non inediti ma presi perché tra i migliori dell’annata ed è mostrato con visore Oculus. Impossibile non provarlo. Ed è bellissimo.
Difficile da spiegare, è tutto narrato con voce off da una ragazza che ricostruisce il suo rapporto con una madre attrice, ora morta. Siamo in uno spazio nero in cui si compongono le parole che sentiamo e si compongono anche dei disegni bellissimi, fatti a mano, non digitali, benché in tre dimensioni. Hanno uno stile stupendo. La forza incredibile del tutto sta nel fatto che noi siamo dentro i disegni, questi si creano e si cancellano intorno a noi.

Possiamo camminare e possiamo girargli intorno ma sono sempre vicinissimi e grandi. Non c’è movimento, i disegni sono fissi. Si vede la ragazza che narra sdraiata guardare la tv, oppure la madre in un film di supereroi lottare contro un drago, o ancora con lei al ristorante. Tutto è grande, quasi a grandezza naturale, muovendosi si può attraversare il disegno, guardarlo dal punto di vista di una delle due, oppure da lontano. La maniera in cui si compongono è commovente, evocativa e coinvolgente. I colori, il nero di sfondo e il mondo che si crea è fantastico, una vera opera d’arte. E poi, dopo tutto questo, quando il racconto arriva alla malattia e alla morte, il disegno di lei al capezzale della madre è piccolissimo, all’altezza della nostra vita, grande quando un libro tascabile, bisogna avvicinarsi per guardarlo bene e ruotargli intorno, una visione commovente.

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