I tre giorni del Condor e il piacere di raccontare una storia

Condividi
I tre giorni del Condor va in onda su Iris questa sera alle 21:00 e in replica venerdì alle 10:09

«A me spiace deluderti, deludere tutti quanti, ma il motivo principale per cui io e Robert abbiamo deciso di fare I tre giorni del Condor è che non avevamo mai fatto un film del genere: un thriller moderno». Queste parole di Sydney Pollack, che risalgono a qualche giorno dopo l’uscita in America del suo nono film, nonché incredibilmente uno dei meno amati dalla critica, spiegano I tre giorni del Condor meglio di tutte le riflessioni, elucubrazioni e dietrologie che ne accompagnarono l’arrivo in sala. E ce ne furono eccome: era il 1975, il Watergate era scoppiato solo tre anni prima, l’America viveva in un clima di paranoia che non era più solo quella esterna da guerra fredda, ma anche interna, e l’uscita di un film che raccontava un immaginario ma plausibilissimo scandalo interno alla CIA, firmato da un autore noto per le sue simpatie liberali e interpretato da un attore altrettanto politicamente schierato, sembrava calcolata a orologeria, un commento artistico a un fatto politico. E invece Pollack e Robert Redford volevano solo divertirsi.

I tre giorni del Condor e Tutti gli uomini del presidente

L’intervista da cui è tratta la frase di apertura del pezzo è questa: uscì sul quasi neonato Jump Cut, e la firmò uno dei più grandi biografi di cinema della storia, Patrick McGilligan. Leggetela, perché è affascinante sotto un sacco di punti di vista. Innanzitutto perché fa piacere e una certa impressione vedere un botta e risposta tra giornalista e intervistato che è provocatorio e ricco di contenuti: nessun riguardo per il fatto che la persona intervistata è uno dei più grandi registi di sempre che sta parlando del suo nuovo film, McGilligan ammette candidamente di non aver apprezzato I tre giorni del Condor e spiega perché, e poi griglia il suo regista con domande molto lontane dalle classiche formalità promozionale tipo “parlaci del cast” o “come hai avuto l’idea per questo film?”.

I tre giorni del condor Redford

Ma soprattutto perché le risposte di Pollack mettono I tre giorni del Condor sotto una luce molto diversa da quella usata dalla critica dell’epoca, che aveva visto nel film una risposta al già citato Watergate e allo scandalo dei gioielli di famiglia, e un attacco molto diretto alla CIA, ai suoi metodi e al potere sproporzionato che esercita nel Paese. C’è da ammettere che, se si guarda il film tenendo d’occhio la timeline degli eventi tra il 1972 e il 1975 (e, con il senno di poi, anche il 1976, anno d’uscita di Tutti gli uomini del Presidente), è difficile non vederci una presa di posizione molto forte, anche a prescindere dalle simpatie politiche di Pollack e Redford.

I tre giorni del Condor e i documentari

I tre giorni del Condor racconta la storia di un, per farla breve, analista della CIA che viene condannato a morte dalla sua stessa agenzia (o forse no?) perché è andato troppo vicino a scoperchiare uno scandalo insabbiato dai piani più alti della “Company” (per tutto il film, gli agenti dell’intelligence americana si riferiscono al loro datore di lavoro come se si trattasse di un’azienda privata). E fin qui l’impronta politica è evidente. Quello che però fa la differenza è il modo in cui Sydney Pollack decide di raccontare la storia di Joseph Turner: sempre nelle parole del regista, «se avessi voluto fare un film di denuncia contro la CIA avrei cambiato completamente stile. Avrei lasciato perdere la spy story per girare un documentario sulla moralità delle agenzie governative e sulla loro burocrazia. Ma questo è un altro film...». In altre parole, il materiale di partenza (tratto dal primo romanzo di una quadrilogia scritta da James Grady) avrà pure sottotesti, ma anche testi, politici e di denuncia, ma I tre giorni del Condor vuole fare altro: intrattenere, prima di tutto.

Robert Redford

Joseph Turner è il prototipo di tanti c.d. “eroi action” che spunteranno come funghi negli anni successivi – oltre a essere il prototipo di Brad Pitt: è sempre impressionante notare quanto somigli al Robert Redford degli anni Settanta. È un signor nessuno, non è né il più forte né il più intelligente né il più preparato, l’unica sua specialità è quello di aver letto un sacco di libri, ma nel momento in cui si trova scaraventato controvoglia in mezzo all’azione, con sicari che spuntano da ogni dove per farlo fuori, si trasforma in un uomo di ghiaccio che farà pentire i suoi datori di lavoro di avergli messo i bastoni tra le ruote. È l’antenato degli eroi braccati alla Jason Bourne/Ethan Hunt, ma è anche un supereroe che scopre i suoi superpoteri nel momento in cui lo Stato che sta servendo lo tradisce e gli massacra la metaforica famiglia – nella figura dei colleghi che lavorano con lui alla American Literary Historical Society, ossia una divisione della CIA sotto copertura –, uno sgarbo al quale Turner reagisce scoprendosi pistolero provetto e hacker in grado di sabotare e tenere sotto controllo la rete telefonica di un intero quartiere di New York.

Sesso, pistole e Max von Sydow

Non stiamo certo negando i contenuti politici di I tre giorni del Condor, che a dirla tutta ha avuto la sfortuna di uscire poco tempo dopo lo scandalo dei gioielli di famiglia dopo essere stato in produzione abbastanza a lungo da fugare ogni dubbio sul suo carattere di instant movie fatto per lucrare su un fatto di cronaca. L’America era stretta nella morsa della paranoia e cominciava a non fidarsi più del governo e delle sue agenzie, e anche I sei giorni del Condor, il romanzo di Grady su cui si basa la sceneggiatura, era un thriller pieno di tensione ma non riusciva a scappare dai suoi sottotesti politici (è datato 1974). Il punto è che Pollack si limita a inserire a scopo illustrativo questi contenuti, che gli servono per arricchire la storia e giustificare l’azione; ma quello che gli interessa più di tutto è raccontare la vicenda di un uomo braccato che si deve ingegnare per sopravvivere agli assassini che gli danno la caccia – al netto dei riferimenti all’attualità, I tre giorni del Condor sarebbe potuto uscire vent’anni prima o vent’anni dopo senza cambiare poi tanto, perché quello che conta è il suo cuore da survival movie urbano prima del suo cervello da film di denuncia.

Faye Dunaway

E infatti Sydney Pollack si diverte un mondo non tanto a parlare di agenzie governative corrotte e di quella che potremmo chiamare “CIAception”, cioè l’esistenza di un network segreto all’interno del network ufficiale dell’intelligence americana, ma a girare un film, a fare cinema. Ci sono momenti quasi western e sparatorie coreografate con un’attenzione e una creatività che si trova di solito più nei film di genere che in quelli d’autore, più interessati al messaggio che allo stile. C’è una sequenza erotica che coinvolge Redford e Faye Dunaway che è un montaggio alternato tra dettagli bollenti (dita che stringono carne, gemiti, occhi chiusi, bocce spalancate...) e fotografie in bianco e nero di attimi di solitudine che, immaginiamo, sarà sembrata fuori posto a chi si aspettava un film di denuncia dalla coppia Pollack/Redford. C’è un Max von Sydow fuori scala che interpreta un personaggio (un mercenario che lavora per il miglior offerente) che dovrebbe togliere ogni dubbio sulle pretese di seriosità di I tre giorni del Condor, e che con le sue maniere affabili e il sorriso da serial killer che prima ti offre un biscotto poi ti spara in fronte anticipa tutti gli Hans Gruber di questo mondo.

C’è in sostanza un grande circo cinematografico, un frullato di generi che, certo, incidentalmente sfiora anche la denuncia politica, ma che prima di tutto vuole intrattenere, coinvolgere, tirarci con forza dentro alla storia del più classico degli “uomini soli contro il sistema”. Nel 1975 questo non bastava, perché si chiedeva a Pollack di fare politica anche con i suoi film, vista la fase eufemisticamente un po’ delicata che stava attraversando il Paese; ora che sono passati quasi cinquant’anni e queste esigenze non ci sono più possiamo finalmente goderci I tre giorni del Condor per quello che è e ha sempre voluto essere: un magnifico thriller.

Continua a leggere su BadTaste