[Berlinale 2015] Gone with the bullets, la recensione
Opulento, barocco, pieno di musica e distrazioni il caos di Gone with the bullets serve a distrarre lo spettatore da una trama che rivela cose altrimenti indicibili
Gone with the bullets si presenta come un trionfo di gioia di vivere, con balli, truffe, fughe d'amore e grande senso di coolness ma tradisce un cuore debole e fragile, si ispira ad un vero fatto di cronaca e lentamente mette in mostra come il perseguitato, massacrato dalla propaganda non avesse egli stesso coscienza di cosa avesse fatto. La verità non interessa a nessuno e il sistema è colluso con il potere. Per dire quello che gli preme Jiang Wen organizza il più grande spettacolo del mondo, coinvolge nei balli un poliziotto come nulla fosse, come fosse normale, fondendo per l'appunto l'esagerazione cromatica di Luhrmann con la CG onnipresente di Sin City e il citazionismo da fine anni '90, ce la mette tutta per distrarre lo spettatore ma alla fine il suo obiettivo è un altro.
Inevitabilmente un film così furioso e dinamico celebra in primis la gioia di filmare, il piacere di dare vita a macchine incredibilmente complesse e opulente, che si nutrano di eccessi e accumulino situazioni, nelle pieghe delle quali Jiang Wen non spiega mai bene tutto, non getta quella luce di chiarezza che contraddistingue il cinema più commerciale, ma riempie la trama di buchi, omette, confonde e quando dovrebbe illuminare fa iniziare un nuovo numero musical. Come un regime non vuole che si sappia tutto e mira a lasciare un senso di vuoto quando alla fine, la storia arriva al suo inevitabile finale.Nessuno fa film così.