Un ragazzo d'oro, la recensione

Il nuovo film di Avati Un ragazzo d'oro è un convincente incubo familiare a sfondo letterario con Riccardo Scamarcio, Sharon Stone e Cristiana Capotondi

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Ancora uomini in lotta per la donna. Come ai tempi di Impiegati, Festa di laurea, Una gita scolastica e Ma quando arrivano le ragazze?

Ancora il nostro passato che ci immerge nell'oblio dell'Io afferrandoci da dietro con mani spettrali. Come ai tempi di Una sconfinata giovinezza, Rivincita di Natale, L'amico di infanzia.

Ancora la follia della creatività come ne La casa dalle finestre che ridono.

Un ragazzo d'oro è la regia cinematografica numero 39 per il regista bolognese classe '38, ex jazzista recentemente in cameo come uno dei poteri forti italiani in Benvenuto Presidente! di Riccardo Milani. Il suo film ha un potere forte? Assolutamente sì. È l'ennesima e coinvolgente storia di donne fatali, famiglie letali e uomini poco leali per questo eclettico cantore dell'amarezza e sconfitta maschile.

Dopo un flashback con gara atletica agreste (salto in alto), facciamo subito la conoscenza di Davide Bias (Riccardo Scamarcio), pubblicitario con ambizioni letterarie in grado di contare i passi tra sé e un suo importante appuntamento confidando i propri pensieri a un iPhone come faceva l'agente Cooper di Twin Peaks con la fantomatica Diane (lui usava un registratore).
I racconti di Davide vengono rifiutati dall'ennesimo editore, il quale gli suggerisce di scrivere un romanzo. Ma lui non ce la fa. E' un salto troppo in alto. E poi: "Se avessi scritto Sotto il vulcano... non sarei certamente qui". Non è un simpaticone il nostro Davide. Quello che ci piace subito del suo personaggio è che è un perdente dal bruttissimo carattere. Avati e Scamarcio sono molto originali e sofisticati nel crearlo con una dizione snob, quella puzza sotto il naso fastidiosa nei confronti del passato da cinematografaro pop del papà, una insistita retorica ("Io ho chiuso con la scrittura!") e il piacere tipico dei frustrati di naufragare nell'autocommiserazione sfruttando vigliaccamente "quel rapporto orrendo" col papà per giustificare ogni fallimento.

Scamarcio è bravissimo. Dopo averlo visto con piacere in un ruolo comico accanto a Ninetto Davoli in Pasolini di Abel Ferrara, eccolo perfetto nei panni del bilioso Bias, il cui nome ha un etimo che ci riconduce a concetti di obliquità e inclinazione e la cui stanza da giovincello vede proprio una foto di Pasolini giganteggiare al centro. Suo papà Achille, invece, teneva appeso nello studio Alvaro Vitali. La morte del genitore sceneggiatore di commediacce italiane (si vedrà uno scampolo di Dove vai se il vizietto non ce l'hai? di Marino Girolami come esempio dei film cui lavorava Bias Senior), precipitato a tutta velocità in un burrone dei Castelli romani come in Toby Dammit di Fellini, costringerà Davide a trasferirsi dalla controllata Milano alla decadente Roma.
Tornerà nella casa d'infanzia (e qui la musica e le porte a vetri e ogni singolo oggetto richiamano all'horror della magione maledetta) per cominciare, da figlio, un viaggio nel passato del padre estremamente pericoloso. Sia perché la via è disseminata di strumenti perfetti per perdere l'identità (come succede al protagonista de L'inquilino del terzo piano di Polanski), sia perché dietro l'angolo c'è un pericoloso sentimento in grado di spazzare via anni e anni di risentimento.
E poi c'è anche Sharon Stone pronta a prenderlo per mano.

Nonostante lei si allunghi subito la gonna sulle gambe a nascondere il corpo durante il loro primo incontro (un'ironica citazione a contrasto della scena cult di Basic Instinct?) l'ambigua amica americana del passato di papà Achille è pur sempre una delle femme fatale più importanti della Storia del Cinema e quindi manipolatrice e pericolosa anche se il doppiaggio la rende fin troppo familiare e innocua.

Cosa succederà a Bias in quella casa maledetta? Finirà come il Gabriele Lavia dell'avatiano Zeder?
Gli ingredienti del suo romanzo saranno sgraziati cinefili cultori del cinema di papà (torna l'acre humour di Avati contro il revisionismo critico nei confronti del cinema pop -che fece anche lui agli inizi- già ferocemente esibito ne Il figlio più piccolo attraverso il suo sosia giovane Nicola Nocella), fidanzatine molto più sveglie di quello che sembra (brava Capotondi), i soliti maschi rapaci pronti a rubare le "nostre"donne, parolacce scandite (è un film che enfatizza molto l'espressione "pezzo di merda"), amuleti di maghi alla Gandalf, mamme passive e un Premio Strega... che già dal nome sa di maleficio magico.

Stavolta Avati non ci porta indietro nell'Italia del dopoguerra della sua infanzia.
Stavolta Avati ci porta in un presente più simile a Una sconfinata giovinezza, geniale thriller sull'alzheimer con uomo di lettere protagonista (era giornalista) pronto a svanire nella sua infanzia come il gemello realistico del protagonista di Radiazioni BX: distruzione uomo (1957) di Jack Arnold.
Se siete in cerca di una storiella macabra, spietata e mai autoindulgente sulla genitorialità e creatività maschile... Un ragazzo d'oro è il film che fa per voi.

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