[TFF34] Fixeur, la recensione
Una sceneggiatura inesorabile filmata con la calma di chi ha le idee chiarissime. Fixeur è un film che porta tutti a mettere in dubbio le proprie certezze
Sitaru mette insieme vita privata e professionale di questo giornalista-fixeur, il figlio piccolo nuotatore in erba che lui spinge a dare il meglio, ad eccellere, ad arrivare primo alle gare e non ad accontentarsi del secondo posto, e poi la lotta che con uguale tenacia porta avanti per riuscire ad intervistare una ragazza che darebbe un senso al servizio sulla tratta dei minori. Nonostante ci sia in sottofondo la sensazione che forse l’insistenza è eccessiva, quando finalmente si troverà di fronte all’oggetto del proprio desiderio (professionale) capirà tutto, anche cosa stia accadendo nella sua vita privata. E l’uso di un espediente impressionante tipico da cinema commerciale, la presa di coscienza improvvisa in un momento puntuale, rende ancora più serio il film.
Non è infatti la scoperta in sé il punto, ma il ragionamento. Non è la conclusione o la morale (parola odiosissima riferita ad un film) quanto la dialettica messa in campo e la risposta così difficile da dare. Fixeur ammira il ragionamento e più che un film di giornalismo è un film di dialettica, che pone lo spettatore di fronte ad un quesito non semplice (viste le buone intenzioni di tutti), con il più azzeccato e pregnante dei paragoni che emerge da una scena e non è spiattellato a parole, quello cioè tra prostituzione reale e prostituzione mediatica, essere costretti a fare sesso ed essere costretti ad essere ripresi. Non era scontato portare tutti a questa conclusione, soprattutto non era scontato riuscire a rendere le proporzioni di un’equivalenza che per tanti non può esistere con una scena che porta allo zenith tutto ciò che il film ha costruito. Ma Fixeur lo fa.