Venezia 71 - Loin des hommes, la recensione
David Oelhoffen concorre al Festival di Venezia con Loin des Hommes, grande prova attoriale di Viggo Mortensen
"Ecco un film da Festival". Una frase che, da queste parti, si sente sempre meno spesso, nel bene e nel male. Sia perché, fortunatamente, il criterio di selezione della giuria diventa, anno dopo anno, più flessibile, rendendo quasi impossibile applicare ancora questa obsoleta classificazione; sia perché, sfortunatamente, questa flessibilità comporta anche la presenza sempre più massiccia di film che non solo non sono da Festival, ma in generale non sarebbero nemmeno da minisala di ultima categoria.
Tuttavia, se ci fosse un'accezione buona dell'appellativo "film da Festival", probabilmente sarebbe il miglior modo di definire Loin des hommes del francese David Oelhoffen. I motivi sono vari e validi: dalla sobria eppure mai tediosa regia, alla splendida resa recitativa dei due protagonisti, alle note semplici ma suggestive Nick Cave e Warren Ellis, passando per una sceneggiatura che non si perde in fronzoli inutili, giocando di sottrazione persino in scene al limite del telefonato. E, non ultima, la fotografia superba, che conferisce al racconto solitario del viaggio di Daru e Mohamed la possenza dei grandi racconti epici. E non è un caso che, più di una volta, il pensiero torni alla jacksoniana trilogia del Signore degli Anelli, che con il deserto algerino ha poco o nulla a che vedere: ma il respiro visuale del film di Oelhoffen è davvero hollywoodiano - anche stavolta, nell'accezione migliore del termine.Ma di Hollywood manca il melodramma, ed è un bene: Oelhoffen dribbla con sapienza qualsiasi patetismo di maniera, persino nell'intenso finale, trattenuto e coraggiosamente scevro di autocompiacimenti piagnucolosi che, forse, avrebbero fatto versare qualche lacrima in più al pubblico, a scapito della riflessione. Ma se c'è una cosa che un film "da Festival" deve saper fare, è proprio mettere in moto la riflessione, che sia artistica o morale; e Loin des hommes non sfoggia nessuna presunzione tipica dei film "da Festival", ma innamora l'occhio e affeziona il cuore senza ricatti etici di pseudo-attualizzazione, eternando anzi la vicenda di Daru e Mohamed e facendoli assurgere, dal realismo polveroso in cui si muovono, nell'Olimpo dei grandi archetipi.