Venezia 72 - L'Hermine, la recensione
Molto migliore di come si presenta, L'hermine è un gioiello nascosto di sensibilità buona recitazione e ottima scrittura
Christian Vincent si è guadagnato la partecipazione in concorso al Festival di Venezia forse proprio perchè su quest'impianto rifiuta pedissequamente di seguire la traccia della commedia rosa più semplice e cerca sempre di usare questa struttura di inesorabile minimalismo per andare più in là. Il rapporto sentimentale molto sussurrato sembra prima oscurato dalla causa e poi in breve la oscura, fino a disinteressarsi esplicitamente di quello di cui di solito il cinema giudiziario è assetato: la verità dietro il crimine. L'hermine ha storia narrata per piccoli tocchi come sa fare il cinema d'autore ma anche la dolce implausibilità del cinema più commerciale, soprattutto usa con intelligenza gli spunti metatestuali della propria ambientazione.
In questo film nessuno fa mistero che l'aula del tribunale sia un palco, uno in cui giudici e giurie si mostrano più degli imputati, in cui si recitano formule e si sostengono parti. E così fanno i personaggi, si mettono in mostra ed esibiscono se stessi in quello che di fatto è un film che appartiene ad un genere preciso, ovvero il cinema giudiziario. Il tribunale è un palco e il cinema ne abusa. Con questo doppio passo Vincent chiede in ginocchio a Luchini di tenere un intero film sulle spalle e ottiene quel che desidera. Non c'è scena che non sia risolta dal suo immobile sperare, il suo giudice fermo e autorevole nasconde malissimo una fragilità che il pubblico brama vedere ma che viene rilasciata a dosi piccolissime fino alla fine.Ben lontano dall'idea preconcetta che abbiamo di cinema d'autore L'hermine è un film migliore di ciò per cui viene spacciato, più sofisticato, intelligente e sensibile dei propri simili, una pecora bianca che andrebbe protetta.