Venezia 72 - The Endless Eiver, la recensione
La mestizia di Endless river sta tutta nell'incapacità di riuscire a raccontare i personaggi della sua storia, soprattutto dal punto di vista visivo
Non c'è niente di male nello spunto di The Endless River e nelle sue intenzioni ma c'è tutto il male del mondo nella maniera in cui le persegue, evitando metodicamente di affrontare un argomento estremamente ricorrente nel cinema e nella narrativa con occhi nuovi. Gli autori migliori che raccontano storie fieramente sentimentali, meglio se sporcate dall'opposto dell'amore, sanno lavorare sugli aspetti e gli anfratti che più sono lontani dai clichè. Per riuscire a colpire ancora una volta lo spettatore cercano di sferrare un colpo dal punto in cui meno se lo aspetta oppure cercano di andare così a fondo con il coinvolgimento da scuotere qualcosa di primordiale e carnale.
The Endless River non sceglie nessuna di queste due strade (tantomeno quella fisica) ma si tiene ad una distanza impossibile per una storia di questo tipo. Filmare il noto e il banale senza sporcarsi le mani, senza scendere nella palude del dolore o della resurrezione da questo assieme ai personaggi (a seconda di cosa interessi) porta il film di Oliver Hermanus a impantanarsi ben presto.Le sue immagini sciorinano un repertorio maldestro di chiaroscuri, un'alternanza insignificante di interni ed esterni e, a parte una mirabolante sequenza di titoli di testa degna del cinema classico hollywoodiano, danno l'impressione di un film che non sa dove andare a parare o come mettere in scena la propria storia.