Venezia 74 - Una famiglia, la recensione

In concorso al Festival di Venezia, Una famiglia di Sebastiano Riso è un dramma intimista che ambisce a divenire denuncia sociale senza averne i mezzi

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Per tentare un'analisi quanto più lucida possibile su Una famiglia, dramma secondo di Sebastiano Riso (dopo l'esordio nel 2014 con Più buio di mezzanotte) in concorso al Festival di Venezia, è doveroso fare un passo indietro per decifrarne l'intenzione a prescindere dal risultato finale. Non c'è dubbio che, rispetto a un cumulo di storie banali presentate (anche) quest'anno in laguna, il film di Riso dimostri - almeno sulla carta - una marcia drammatica in più, non fosse altro per la mostruosità umana che mette in scena raccontando la parabola disperata di Maria (Micaela Ramazzotti), spinta dal compagno Vincent (Patrick Bruel) a dare alla luce figli destinati a coppie cui, per un motivo o per un altro, è precluso l'essere genitori.

La coercizione che Vincent esercita sulla donna rimanda, sebbene svolgendosi secondo ritualità diverse, a quella immortalata da Garrone nel suo Primo Amore, sfuggendo alla facile trappola della demonizzazione completa dell'uomo. Se Vincent non è un satanasso, Maria è però una martire di borgata, una donna accartocciata e avvilita, incapace - fino alle ultime battute - di reggersi sulle proprie gambe in assenza del compagno, di cui è completamente succube. La sua salute vacilla, il suo potere creatore sta appassendo, e per la nostra protagonista giunge il momento di decidere se rinunciare per sempre alla maternità o schierarsi apertamente contro un amante sempre più simile a un aguzzino.

Il senso profondo della genitorialità è la tematica unica e predominante di Una famiglia; tematica, va detto, declinata in modo deludente da una sceneggiatura che sprofonda ben presto in una tediosità pretenziosa, che tanto vorrebbe dire e ben poco riesce a comunicare. A nulla valgono gli sforzi di Micaela Ramazzotti, ingabbiata in uno schematismo gergale manierista e spesso irritante, contrapposto alla fissità granitica di Bruel, colosso pigramente inflessibile di cui poco o niente ci viene spiegato. Al di là delle rispettive pecche, l'aspirazione a una complementarità da yin e yang - sia cromatica che attoriale - genera un contrasto intrigante ed efficace, sebbene non sufficiente a catturare l'attenzione del pubblico in via definitiva.

Va inoltre elogiata l'assenza di quel didascalismo biografico tanto caro al nostro cinema, fatalmente attratto dalla tentazione di spiegare per filo e per segno il passato dei propri protagonisti. Una rinuncia che svetta tra i mimetizzati pregi di Una famiglia, che anela disperatamente a essere controverso senza possedere la sensibilità e la coerenza per coinvolgere lo spettatore nell'aspetto sociale della sua denuncia. Non va meglio sul fronte meramente drammaturgico: se il senso del cinema è il movimento, inteso non solo visivamente ma anche e soprattutto come moto dell'uomo verso un luogo altro rispetto a quello di partenza, i protagonisti di Riso sembrano piuttosto sballottati qua e là da scelte di personaggi secondari di cui, a dispetto delle pur buone performance dei comprimari Fortunato Cerlino, Matilda De Angelis, Ennio Fantastichini e Sebastian Gimelli Morosini, non potrebbe interessarci meno.

Lo spettatore resta così sospeso alla ricerca di un collante emotivo, nella vana attesa che Maria cambi o che il suo non-cambiamento divenga, almeno, elemento narrativo degno d'essere trattato. Il quadro finale di Una famiglia non ci restituisce il ritratto di madre che le sopracitate storie banali avrebbero previsto, ma lascia incompiuto anche il vivido abbozzo di donna che gli ingredienti a disposizione ci avevano fatto presagire. Un'occasione mancata, raddrizzata laddove possibile da una regia che dimostra pregevoli guizzi creativi, soffocati però da una scrittura asfittica nel tentativo di essere rigorosa e minimalista.

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