Venezia 74 - La vita in comune, la recensione
La vita in comune di Edoardo Winspeare, presentato a Venezia nella sezione Orizzonti, segna il punto più basso nella carriera del regista pugliese
Se l'idea di Winspeare era di conciliare comicità e impegno civile in un'opera che affrescasse con leggerezza la rinascita della piccola comunità di Disperata - trasfigurazione, almeno parziale, della frazione di Depressa, in cui il regista è cresciuto - il bersaglio è stato clamorosamente mancato a causa di una sceneggiatura costruita su gag comiche mai mordaci, di una sequela di eventi sempre implausibili che non assurgono mai a fiabeschi e di un cast incapace di far fronte alle evidenti lacune ritmiche e tematiche della storia.
L'anelito poetico che unisce il detenuto Pati (Claudio Giangreco) e il sindaco Filippo (Gustavo Caputo) affonda le radici della sua inverosimiglianza nella costruzione di profili psicologici scontati e sbozzati senza cura, laddove il passato registico di Winspeare ci aveva abituati a figure finemente tratteggiate anche nelle sue opere meno brillanti.Solo un elemento sfugge alla maledizione che sembra avvolgere l'intero cast (su tutti il lamentoso, fastidiosissimo Caputo, che ci aveva invece convinti nel precedente film di Winspeare In Grazia di Dio): trattasi di Antonio Carluccio, formidabile interprete del delinquente Angiolino, la cui verve comica risolleva in più di un'occasione un copione fiacco e rilassato.
A lui e alla struggente bellezza dei paesaggi pugliesi, ritratti con la consueta, accorata maestria dalla mano innamorata del regista, si deve quel poco di buono che c'è da salvare in La vita in comune; il resto, purtroppo, non differisce in nulla dai più banali cliché della commedia nostrana, del tutto incapace di librarsi sulle ali onnipresenti nei versi poetici di Pati, limitandosi ad arrancare sotto il peso di una colpevole pigrizia creativa.