Essere Gabriele Muccino. Oggi. In Italia. Parte 3: Il ritorno

Essere Gabriele Muccino. Oggi. In Italia. Parte 1: I fondamentali
Parte 3 Il ritorno
©Andrea Francesco Berni
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  • Dopo l’uscita di La ricerca della felicità nel 2006 Gabriele Muccino ha infilato in un pugno d’anni uno dei film destinati ad essere più noti, amati e influenti nel cinema commerciale italiano e poi quello che forse rimarrà come il suo film di maggiore successo nel mondo, lanciando Will Smith come attore a pieno titolo, da prendere sul serio. In quel momento tutto sembrava possibile.

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intervista a cura di Gabriele Niola

Come dici tu alla fine La ricerca della felicità era un feel good movie, cosa che decisamente non fu invece Sette anime che, diciamocelo, era un progetto folle: un film da piangere a tutti gli effetti con in mezzo il suicidio!

“Eh quel film uscì in un momento tremendo, nel Natale del 2007 quando ci fu il buco nero delle banche e lo scoppio della bolla immobiliare. I centri commerciali erano deserti, in più sulla costa Est arrivò una tempesta di neve terribile che costrinse tutti a casa. Si pensava ad un primo weekend da 22 milioni e invece fu di circa 15, una partenza faticosa nonostante la quale alla fine arrivò a 75 milioni, che non sono pochi, e 170 con il resto del mondo”.

Però è incredibile che tu abbia fatto un film così difficile come quello e invece non Hancock che pure inizialmente dovevi dirigere e sulla carta era di certo un successo più facile...

“Guarda, io lessi il copione dopo che avevano cacciato a calci in culo Jonathan Mostow perché litigò con Will Smith: era un macello. Il titolo era un altro, era Tonight He Comes, perché il protagonista era un supereroe che quando scopava aveva un getto di sperma così potente da distruggere tutto”.

Ma non è vero dai….. Che stai dicendo?

“Te lo giuro, è tutto vero! C’erano queste scopate tra lui e lei che si chiudevano con schizzi che distruggevano l’Hollywood Boulevard e io non capivo come potessi girarlo. In più mi arrivò tra capa e collo un divorzio nefasto e faticosissimo, con gli avvocati che mi chiamavano alle 4 di notte, e non riuscivo a dedicarmi a quella storia che non capivo come prendere. Pensa che è di Vince Gilligan, il creatore di Breaking Bad e doveva produrlo Michael Mann!”.

Poi però è diventato tutt’altro

“Sì e meno male. Di quel che avevo cambiato io è rimasta solo una cosa: la protagonista femminile bianca. Avevo scelto Charlize Theron mentre Will voleva Halle Berry. Il timore era che la comunità afroamericana si infastidisse che lui andasse con una bianca. Io l’avevo convinto a rompere questo schema ma mi sa che alla fine nel film non si baciano mai. L’uomo nero a letto con la bianca in un film mainstream era ancora troppo”.

Come si è interrotta la collaborazione con Will Smith?

“Misteri hollywoodiani…”.

Ma tu l’hai più sentito dopo Sette anime?

“Certo! Mi manda anche gli auguri di compleanno. Gli ho scritto molte volte, proponendo film o perseguendo film che stava per fare o voleva fare. L’ultimo di cui ho letto è quello sul padre delle sorelle Williams, è un bellissimo copione, è proprio un film perfetto per me. Ma niente. Per come me lo sono spiegato io è dovuto al fatto che ha vissuto Sette anime come un insuccesso credo. In America sei l’ultimo film che hai fatto, La ricerca della felicità era tutto in salita, Sette anime no. Nonostante abbia incassato! Ma credo che a lui, come a me, i fan lo fermino per La ricerca della felicità”.

A quel punto sei tornato e hai girato l’unico sequel della tua vita: Baciami ancora.

“Sì, l’ho fatto per pagare un divorzio. L’avrei potuto fare con più calma e meglio, ma mi aspettavano ad Hollywood, gli avevo intortato che dovevo fare un film in Italia (“Perché??” mi dicevano “Perché sì! Perché sì!!”) ma mi dovevo sbrigare. Quel film soffre del fatto che tutti gli attori con cui avevo girato L’ultimo bacio erano ormai diventate star e una struttura piramidale come quella del primo, da Giovanna e Stefano giù a pioggia, non andava più bene. Per accontentare tutti quanti e dare a tutti un plot che si apre e si chiude abbiamo creato una struttura orizzontale, che diventa un po’ lunga e un po’ noiosa. Poi ci sono errori fondamentali come la parrucca di Pasotti, imperdonabile...”.

Sì me la ricordo. Abbastanza imperdonabile. Com’è successo?

“Mi sono fidato di parrucchieri che avevano vinto l’Oscar ma hanno fatto un danno indimenticabile. Io non rivedo mai i miei film quindi non li ricordo bene, questo l’ho dimenticato ancora più in fretta”.

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Sì ma Baciami ancora era non solo un ritorno ai tuoi ambienti era proprio un ritorno al tuo stile. Per paradossale che sia lì c’è uno dei momenti migliori del tuo cinema, quando Vittoria Puccini e Stefano Accorsi stanno discutendo animatamente nell’appartamento vuoto, con porte scorrevoli che si aprono e che si chiudono, tutto dinamico con loro che entrano ed escono dall’inquadratura a partire da un piano a due in cui c’è talmente tanta luce che sembra riempire il bulbo oculare di lei.

“Sì? Pensa che nemmeno me la ricordavo. Forse ora che me lo ricordi un po’ mi sovviene quella storia delle porte finestre da chiudere…”.

Quanto ti ci vuole per pianificare una scena così? E sono quelle le idee che ti vengono mentre scrivi e di cui poi ti fidi?

“Un po’ e un po’ perché magari mi vengono mentre scrivo ma poi devo trovare la location che lo permetta, in quel caso la casa con le finestre tutte in fila”.

Quell’uso della luce è quello che mi dicevi che ammiri in Robert Richardson?

“Sì e il direttore della fotografia era Catinari. Ci sono cose belle in quel film, ma ce ne sono troppe. Dovevo avere il coraggio di tagliare almeno 30 minuti sani”.

Intanto in America ti aspettava Quel che so sull’amore. Ho recuperato un po’ di articoli dell’epoca e in preproduzione sembrava tutt’altro. Se ne parlava come di un film in stile Kramer contro Kramer, era così?

“Era un film interessante, almeno se l’avessi potuto fare a modo mio, cosa che non è accaduta. Era un dramedy. Se lo rifacessi secondo me potrebbe venire fuori un bel film”.

Cioè credi ancora in quell’idea?

“Sì era bella, ma la situazione era l’opposto di quella con Will Smith. C’erano 11 produttori e uno di loro era il protagonista, cioè Gerard Butler. Lui proprio non è un cinefilo, non conosce la storia del cinema, ma ha i capitali e vuole controllare i film che produce. Fu un macello. Arrivai a licenziarmi per la sofferenza. Alle 10 di sera mi arrivavano le scene riscritte per il giorno dopo”.

Non riesci a lavorare su commissione?

“Ma non è quello. Ad esempio io ho una regola: una scena deve durare una pagina o una pagina e mezzo, altrimenti superi il minuto/minuto e mezzo di durata, e se una scena dura 3 minuti rompe il ritmo, insomma mi devo sempre inventare il modo di farla durare una pagina a costo di frazionarla in più location, come in C’eravamo tanto amati che magari iniziano a parlare da una parte e poi stacca e continuano da un’altra parte. Se non lo faccio il film inizia a diventare una fisarmonica e pure lo spettatore perde il ritmo. L’ho rispettata anche nei film con Will Smith, ma quelle scene che mi arrivavano erano un disastro di lunghezza, ritmo…”

Però poi non ti sei licenziato no?

“In America costa tutto il quintuplo e stai sotto la pressione di un denaro che non basta mai, quando mi arrivò quella proposta scelsi di fare il film perché erano soldi che mi servivano. E il momento in cui inizi a fare questo tipo di compromessi scendi a fare un patto con il tuo destino proprio. È una scelta che non può portare bene”.

E non è comunque quello il tuo ultimo film americano ma Padri e Figlie...

“Sì che è un film a cui sono legato da una depressione profonda che mi era venuta grazie a Gerard Butler ma non solo. Mi avevano proprio cannibalizzato l’anima e sapendo che Russell Crowe era noto come un attore difficilissimo, prospettavo la mia morte. Avevo già scelto proprio la mia tomba e il mio appezzamento nel cimitero delle star, Hollywood Forever”.

In questi casi, quando sai che l’attore è difficile, ti presenti a muso duro o conciliante?

“No mi presento vero, se ti piaccio bene se non ti piaccio vaffanculo. Non sono mai stato furbo nell’ingraziarmi la gente e Quello che so sull’amore andò così anche perché non fui schietto abbastanza. Ad ogni modo quando arrivò quel film avevo deciso di tornare in Italia ma il film mi piaceva e la sceneggiatura anche, così lo feci. Tuttora penso sia interessante, certo ha il problema di essere troppo melodrammatico, spinge troppo nel voler far piangere. Anche Buonvino fu spinto a fare una musica molto zuccherata. Fosse stato più sobrio sarebbe stato certamente più potente. Ma a differenza di Quello che so sull’amore non lo rinnego”.

A quel punto ti eri trasferito in America da anni, vivevi lì e avevi portato avanti anche diversi progetti che poi non sono diventati dei film o che non hai fatto tu come Passengers. Insomma la tua vita era lì, e invece ad un certo punto ti è stato chiaro che non volevi più lavorare in America?

“Io volevo scappare dall’America, volevo fuggire, odiavo loro e il loro modo di pensare, quell’industria diventata tossica per l’arrivo di Netflix. Hollywood si era irrigidita in modi spaventoso, io ho beccato l’ultima coda vera di studios che facevano film drammatici, oggi li fanno in 5, 5 registi possono fare i film che vogliono loro con la Warner o la Universal, tipo Nolan, Spielberg… Nemmeno Scorsese può fare il film che vuole e infatti va su Netflix.
Hollywood si è chiusa a riccio perché non ha più pubblico, il pubblico di qualità sta su Netflix perché lì ci sono cose con più pepe perché non c’è censura, puoi fare vedere la droga, sesso, le tette….”.

Però non ho mai capito come mai al ritorno in Italia hai fatto L’estate addosso. Certo è un film nostalgico e la nostalgia è da sempre parte dei tuoi film, ma proprio fin dalla concezione non sembra un tuo film: non ci sono attori noti e non è pensato commercialmente. È come se avessi rifatto un film d’esordio...

“L’ho fatto come un film piccolo e mi sono divertito, non ho problemi a fare film piccoli. Era nato indie con la spavalderia che mi è propria: volevo fare un film in più lingue come Narcos, un po’ italiano e un po’ inglese, per abituare il pubblico italiano a leggere i sottotitoli”.

Decisamente ambiziosa come idea...

“No no, macchè ambiziosa, è proprio arroganza! Il risultato è stato che alle casse dei cinema nel sud Italia la gente rivoleva i soldi e lì il film fu levato dopo pochi giorni. Certe cose si possono fare solo con le serie, lì è l’unico posto in cui far vedere quello che al cinema non ti consentono”.

La serie tratta da A casa tutti bene che farai sarà così? Farai vedere cose che non vediamo al cinema?

“No perché il mio cinema non ha mai sofferto di questi problemi. Credo di aver filmato più gente che si fa le seghe io che non so... Dovrei contarle. Anche in L’estate addosso c’è… Ma che dico c’è anche in Gli anni più belli! Ma pure in Ricordati di me mio fratello se ne faceva una su Nina Moric. Ne ho filmate tantissime…. Chissà come mai….. [ride fragorosamente]”.

Cosa ti ha spinto verso la tv allora?

“Perché finito A casa tutti bene proprio mi dispiaceva smettere, sia per gli attori ma soprattutto per i personaggi, li amo tanto e li conosco tanto, volevo continuare”.

Anche in quel film c’è una gran scena, un colpo tecnico di precisione millimetrica. Quando stanno tornando a casa di notte e Accorsi si attarda in un vicolo, c’è tutta questa mossa tortuosa, il bacio e un cigolio lontano…

“Sì è vero…. Mi pare con Azzurro di Celentano in sottofondo no? Tutti salgono su e lui la prende la porta sotto, la bacia con quel cigolio dato dal fatto che c’era vento”.

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Questi sono dettagli che in tantissimi film sono frutto del saper cogliere il caso, perché molti cineasti si aprono a quel che possono trovare sul set, contano proprio di sfruttare la casualità e le opportunità che gli si presenteranno. Per te è così?

“Macchè, era tutto scritto! L’ho voluto io. Ma pure la luce del lampione che si muove con il vento era orchestrata”.

Davvero?

“Che mi frega? [ride ndr] Mi prendo il merito di tutto… No ma è vero c’era un elettricista che la muoveva sul muretto”.

La scena più discussa di quel film però è un’altra...

“Lo so”.

...quella in cui Favino si scontra con Carolina Crescentini e quasi la butta giù da un dirupo. Ed è stata discussa non senza ragioni

“Guarda io sono un provocatore. Tutti mi hanno accusato di essere un violento, anche se poi la magistratura ha dimostrato in un secondo che non era vero archiviando tutto (sebbene questo nessuno lo sappia) e ciò che è stato detto dopo è stato fiato di gente che è stata querelata, diffamazioni riguardo le quali per mia bontà ho poi ritirato le accuse. E siccome non me ne frega un cazzo di quel che pensate di me, fondamentalmente, ce l’ho messa quella scena. Perché quelle cose lì accadono, c’era il black out, c’era lo stress e scatta quella dinamica chiamata “flight or fight”, quando sei sotto pressione l’istinto dato da quell’energia repressa è di scappare o combattere, cioè alzare le mani. È una dinamica di stress che porta alla violenza ed è umana anche se bestiale, è nell’ordine della natura. Ma non è che sia diversa dalla scena in cui Giovanna Mezzogiorno vuole accoltellare Accorsi in L’ultimo bacio. Non era meno violenta, solo che qui cambia come viene letta”.

La serie sarà così? Avrà questa foga?

“Non lo so, non ne ho mai fatte. So che bisogna fare 50 minuti in 3 settimane e spero di trovare registi che possano seguire la mia impostazione”.

Tu dirigerai qualche episodio e poi come gli showrunner detterai lo stile degli altri?

“Sì anche se il mio stile non è facilissimo da seguire”.

Ecco qui volevo arrivare: la creerai senza limiti o la penserai in modo che poi qualcun altro la possa girare?

“La penserò come dovrebbe essere fatta ma in modo replicabile, non posso mettere uno a fare 6 minuti di piano sequenza come in Gli anni più belli, con Kim, Favino e Ramazzotti sulle scale. Quelle cose o le faccio io o niente, non è meccanica non lo puoi spiegare è musicale, hai un ritmo in testa e quello ti fa muovere la macchina a tempo”.

Non sarà facile considerato che di solito i registi di serie tv in Italia tendono ad essere sempre nomi un po’ noti, e io non vedo qualcuno che già conosciamo in grado di proseguire in modo che non si noti lo stacco con quel che hai fatto tu…

“Eh…”.

...finirai a farla tutta tu?

“Io già lo so guarda… E mi prenderà un sacco di tempo! Ma in realtà io vorrei fare un film a cui già sto pensando, e farla tutta io è come allontanarlo. Però vedrai che va a finire così, già lo so!”.

Il film a cui stai pensando è qualcosa di diverso dal solito o è un film Muccino-Muccino?

“No no, è uno Muccino-Muccino. Mi piacerebbe fare quel che dicevi parlando di L’ultimo bacio, un film d’azione e sentimenti. In quel senso mucciniano. Vorrei fare un film nevrotico, un bel film urlato una volta tanto! [ride ndr]”.

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