La recensione dell’episodio 3 della serie Obi-Wan Kenobi, disponibile su Disney+

Obi-Wan Kenobi potrebbe essere l’esempio perfetto da portare in una scuola di cinema per spiegare la differenza tra un buon soggetto e una buona sceneggiatura. Il primo è l’idea. Quella che viene descritta in poche cartelle, riassume tutti i punti salienti, gli snodi principali. L’incontro con Leia, la scoperta della sopravvivenza di Anakin, il primo scontro con Darth Vader e così via. 

La sceneggiatura invece deve fare i conti con il ritmo, con l’esposizione e la giustificazione logica degli eventi e soprattutto con i dialoghi. Arrivati già a metà della miniserie dedicata al maestro Jedi è evidente che il soggetto sia stato pensato per andare a coprire una di quelle Star Wars Story che avrebbero dovuto accompagnare il nuovo corso di film. Con l’arrivo di Disney Plus e l’esigenza di portare, e mantenere, iscritti a fronte di un catalogo interessante ma lento a rinnovarsi, la serie su Obi-Wan Kenobi è diventata una delle punte di diamante dell’offerta seriale.

Ha pagato però un prezzo alto, che è quello della compattezza e del senso di urgenza. Dopo due episodi non perfetti ma scoppiettanti, il terzo episodio vive di rendita.

Reva è un personaggio con molti problemi

Reva continua ad essere un problema: a meno di colpi di scena futuri continua inesorabilmente ad essere una dei villain meno carismatici della saga. È un problema di come viene diretta e di ciò che le accade, non tanto di Moses Ingram che la interpreta. Subisce sempre: pronuncia minacce ma viene schiacciata da tutti i suoi colleghi dell’impero. Dovrebbe almeno avere una rabbia sopita, che mai si percepisce. Questo si somma alla difficoltà, che da sempre contraddistingue la saga, di spiegare perché le persone aderiscano spontaneamente alle macchinazioni dell’Impero. “Un po’ di ordine fa sempre bene”, come si dice in questa puntata, è una giustificazione raffazzonata. Soprattutto perché il personaggio che la pronuncia non conduce una vita in grado di giustificare un tale pensiero. E quindi si perde molto della credibilità e della tensione che ne consegue.

Questi rapidi accenni agli effetti sulle persone dei cambiamenti nell’ordine della galassia, dimostrano soprattutto come la serie voglia costruire attorno alla mitologia già esistente, ma non voglia mai andare in profondità. E allora senza la voglia di dare colpi netti, ma solo leggere pennellate, tutta la puntata, che si dimostra piacevole e spettacolare come sempre, è però un contenitore di occasioni sprecate.

Obi-Wan Kenobi Moses Ingram

Una regia e una sceneggiatura poco ispirate

La più grande è l’incontro tra Obi-Wan Kenobi e Vader. Una bomba nel soggetto. Invece svogliatissima in sceneggiatura e ripreso nel modo più anonimo possibile. Lo si capisce ripensando a come Gareth Edwards l’ha fatto apparire in Rogue One. Un arrivo graduale, in uno spazio stretto che opprime e soffoca (qui invece è all’aria aperta). Adotta il linguaggio horror, gioca con i suoni e la luce della spada laser. Nell’episodio invece non c’è nulla di tutto ciò. Anzi il montaggio è addirittura confusionario. Non c’è nemmeno metà della portata drammatica che aveva quel momento anche se la portata emotiva tra i due personaggi è infinitamente più grande!

Ma, in fondo, Obi Wan non è quello che abbiamo imparato a conoscere. È traumatizzato dall’ordine 66 e dal suo fallimento come maestro. È distantissimo persino dalla saggezza che lo contraddistingue in Episodio IV. Addirittura nella scena più assurda e più buttata via della puntata (ancora una volta una buona idea bruciata da una cattiva sceneggiatura) svela la sua copertura agli stormtrooper, come un novellino o come un vecchio un po’ alticcio. Questi ultimi, che non brillano di intelligenza, si bevono la scusa che adduce. Salvo subito dopo incontrarne altri ad un posto di blocco che invece sono durissimi e sicuri di avere trovato chi stavano cercando! 

Che differenza rispetto allo splendido inizio, quel dialogo con il maestro Qui-Gon Jinn carico di affetto e del timore di un maestro Jedi che ha perso se stesso. 

Una serie che possiede ancora del potenziale interessante

Sembra che tutte le serie di Star Wars debbano essere un viaggio. Questa è leggermente meglio delle altre sia per i luoghi che visitiamo che perché gli incontri fatti hanno conseguenze maggiori. Tutto ha uno sguardo più ampio. Eppure i momenti in cui la storia diventa veramente affascinante sono quelli in cui si scava in profondità sul passato dei personaggi. 

Leia è simpatica, e la scelta di concentrarsi molto su di lei va difesa. Ma la bambina è anche così sicura di sé e “adulta” che stempera troppo la gravità di quello che le è successo. È lontano da casa, ricercata dai peggiori uomini della galassia. È pur sempre una piccola accompagnata da uno sconosciuto in pianeti che non conosce: non esiste che non versi nemmeno una lacrima o che non abbia nostalgia di casa. Obi-Wan Kenobi funziona sempre grazie all’affetto che Ewan McGregor nutre nei suoi confronti. In un breve momento si accenna ad un possibile fratello, mentre scava nel suo passato prima di diventare Jedi. Un brivido, per come pronuncia quelle battute e per quel dettaglio privato che ci è concesso di conoscere. Una rara apertura Jedi rispetto al passato.

È lì che le cose si fanno interessanti. Nei piccoli momenti di riflessione, nei dettagli di una backstory che non abbiamo mai nemmeno immaginato di poter conoscere in un prodotto in live action. Dando spazio a questi attimi sinceri in cui la mitologia esplode e si espande, la serie trova una ragione per il suo abbondante tempo a disposizione. Saltando da un momento chiave all’altro come in un videogioco mal concepito, si può ancora ritrovare l’epica di questa galassia fatta da persone sole e dal passato ingombrante. Andrà però corretto il tiro alla svelta, prima di spegnere definitivamente la magia. Non conta cosa metti in scena, conta come lo fai. Lucas lo sapeva bene.

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