Ancora la battaglia di New York. Quel momento in cui Loki si è mostrato al mondo e la Terra ha capito di essere solo un minuscolo granello in un cosmo sconfinato. Un istante in cui la Marvel stessa guardava il botteghino e capiva che avrebbe potuto esplorarlo, quell’universo. C’è stato poi Ultron, a cui è seguito Thanos, e ora ci confrontiamo addirittura con Arishem che appare di fronte a un emisfero intero. Eppure le storie ruotano ancora intorno a quegli eventi. La prima volta che gli Avengers si sono uniti è come una chiave inserita nella toppa e girata con forza che ha innescato un meccanismo a domino impossibile da arrestare. Ancora facciamo i conti con quell’inquadratura. Ed è da qui che comincia Hawkeye.

O meglio, parte da qui Kate Bishop (Hailee Steinfeld): osservando il più umano degli eroi affrontare esseri che, fino a cinque minuti prima, nessuno sapeva esistessero. Come in una staffetta, la nuova generazione che ci viene introdotta nella fase 4, condivide parte del percorso con gli eroi titolari, per poi correre da sola. Succedeva con Falcon, Yelena Belova, e accade anche con Shang-Chi e Kate Bishop. Ci immaginiamo sarà lo stesso con Kamala Khan. Personaggi che hanno vissuto gli stessi fatti degli eroi più celebri, ma di cui non abbiamo mai visto il piccolo angolo di vita. Certo, a parte Sam Wilson, il quale si trasforma però in un altro eroe: Falcon ha combattuto Thanos, il Captain America con le ali no. In ogni caso: nessuno ha le proprie origini da solo, ma in continuità logica come in una catena di fatti e reazioni.

Hawkeye inizia con un’atmosfera diversissima da quella natalizia che infonderà le due puntate. Uno spaccato di vita famigliare che viene scosso dall’arrivo della guerra. All’improvviso le finestre tremano, si sentono esplosioni e grida. Kate, bambina, non capisce quello che sta succedendo e cerca i genitori. Alle sue spalle, mentre corre in tutta la casa, vediamo dalle finestre ciò che sta accadendo. Navi chitauri, leviatani, e lontano un piccolo Clint Barton che sopravvive fa il suo dovere rischiando la vita.

Ma perché la battaglia di New York è così importante e amata (tanto da essere stata rimontata anche in sincrono con Avengers)? Possiamo ipotizzare che lo sia anche per il suo valore simbolico, per il trauma che inconsciamente è stato processato dagli sceneggiatori attraverso di esso. Non è difficile da intuire quale sia, se non il momento che ha segnato maggiormente l’inizio del secolo.

Per molti anni si è detto che il cinema (mainstream e non solo) stava rielaborando anche con le scene catastrofiche, e il catastrofismo in generale, il trauma dell’11 settembre. Un attentato che ha contribuito a plasmare le forme stilistiche e tematiche del cinema traghettandolo in una nuova era iperconnessa e “in diretta”. C’è chi l’ha fatto più esplicitamente come Cloverfield, dove un mostro decapitava la Statua della Libertà e terrorizzava Manhattan. L’hanno fatto film come La 25ª Ora, Zero Dark Thirty su un lato più politico e intellettuale.

Altri, come i found footage alla Rec e non solo, usavano la tecnica per riflettere sulla presenza mediatica nel momento della tragedia. L’attentato si è svolto in diretta sotto gli occhi increduli e terrorizzati dei giornalisti, ma anche dei passanti che filmavano le torri in fumo. Questa predominanza dell’occhio della strada come sguardo reale e senza censure ha caratterizzato il cinema per molti anni.

Il genere supereroistico ha per molto tempo attinto a quei fatti. In Man of Steel e nel successivo Batman v Superman era il crollo di una torre a innescare il ritorno del crociato di Gotham. La Marvel ha riflettuto più volte su tutto questo, arrivando al culmine con Captain America: Civil War. Lì, per la prima volta, ci si sedeva dietro a un tavolo ad analizzare i filmati amatoriali delle devastazioni. Si sono varate leggi e si sono prese contromisure. Con quel film il “fantasma che arriva all’improvviso da lontano e sconvolge le nostre vite” sembrava superato. Thanos era atteso, era ingiusto ma comprensibile (Thanos Was Right), ed era un nemico comune dell’intera umanità. La sua minaccia è più simile a un cambiamento climatico che a quella portata da un terrorista.

loki the avengers

Ora le grandi battaglie stanno progressivamente uscendo dalle città. O, per lo meno, non si limitano a New York. Diventano un fatto globale (si veda Eternals) e che coinvolge le radici stesse delle società. Hawkeye invece fa un passo indietro con quella scena iniziale. Ritorna sull’11 settembre. Riprende quelle immagini simboliche, rielaborate dalla fantasia Marvel, e le ripropone nella prospettiva di un tempo che è passato e di una generazione che è cresciuta con quelle immagini negli occhi.

Kate e Clint. È questa la loro differenza. L’Avenger ha potuto avere un ruolo di primo piano nell’11 settembre dell’MCU. Era un lavoratore, al pari dei poliziotti e dei pompieri, che ha affrontato la minaccia. Lei è una vittima civile che ha visto e che ne è stata segnata per sempre. Non è un caso se il regista ci presenta i fatti dalla finestra. Li conosciamo bene, sono ripresi anche in Avengers: Endgame che li ha ampliati. Questa volta però si arriva nelle case, scopriamo quello che succedeva mentre le vite venivano sconvolte “in diretta”. Hawkeye fa quello che Joss Whedon aveva tagliato: ovvero la lunga sottotrama dei civili che cercano di sopravvivere durante le azioni di Loki. Fu tagliata (la si può ritrovare negli extra) perché toglieva il ritmo dell’azione principale.

Oggi ciò che accade all’interno delle mura prima che vengano sfondate dagli Avengers è un contenitore di tante origin story. Quella di Kate è esplicitamente legata alla sua età anagrafica, sin da questo incipit. Lei, bambina e poi giovane, vuole essere come il più umano degli Avengers, e quindi colui che ha rischiato di più, e che ci ha messo più tempo a rimarginarsi le ferite.

Occhio di Falco in questo è l’equivalente di chi si è buttato nella torre in fiamme per evacuarla. È colui che ha cercato di domare l’incendio. Facendo quello che poteva con le sue forze. Kate, 10 anni dopo la battaglia di New York (e 20 anni dopo le torri gemelle) è cresciuta con quei gesti negli occhi. È quel tipo di eroismo che vuole imitare: fatto dai propri limiti più che dal superamento degli stessi. 

Probabilmente la riflessione sui fatti della storia politica si fermeranno qui, la serie è già andata a parare su altro. L’atmosfera natalizia suggerisce che il centro sarà la famiglia e i rapporti che si creano all’interno di quel nucleo. Però talvolta anche inconsciamente, il grande cinema popolare (o la serialità, in questo caso) è capace di far emergere traumi inconsci che attraversano la creatività. Proprio questo cambio di prospettiva di uno stesso evento, da Barton a Bishop, definisce bene dove siamo ora nell’elaborazione di questi fatti con gli occhi dei fumetti adatti al linguaggio del cinema.

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