Il quinto episodio di Moon Knight è quello che era il penultimo per WandaVision. Ed è una delle cose migliori che la casa delle idee abbia portato sul piccolo schermo da quando ha iniziato a produrre serie. Poter assistere al rilascio di una serie Marvel ogni pochi mesi, creando un flusso quasi ininterrotto tra film e puntate settimanali, aiuta a tracciare parallelismi. È più facile, avendo ancora fresche negli occhi gli altri prodotti, individuare la struttura portante su cui sono organizzati questi archi narrativi. Si tracciano linee di episodio in episodio e si cerca di prevedere tendenze.

Non c’è da ben sperare sul finale di Moon Knight quindi, dato che fino ad ora solo Loki è riuscita a chiudersi con il botto. Gli è venuta in aiuto una seconda stagione già in programma. Generalmente infatti gli sceneggiatori partono bene: la prima combo di episodi (spesso quella fatta vedere alla critica per recensire la serie) setta il livello medio di qualità. C’è sempre un piccolo calo dopo questo primo blocco introduttivo. Gli episodi tre (o in generale quelli collocati intorno a 1\3 della storia) ripetono la formula senza grandi scossoni. Gli episodi 4 (o, per generalizzate, quelli poco dopo la metà del totale) ridanno potenza con un colpo di scena o un cliffhanger importante. Il finale invece cala, si riassetta sempre sulle solite convenzioni. 

Il meglio arriva però tra il momento del cliffhanger e l’ultimo episodio. Quando si chiudono le vicende personali dei protagonisti, prima del gran finale dedicato alla resa dei conti con il villain. Poco prima di spegnersi infatti le serie Marvel brillano maggiormente. In attesa di vedere cosa ci riserveranno gli ultimi minuti, si può dire la regola è rispettata anche da Moon Knight.

Un lungo spiegone capace di commuovere

In Asylum succede di tutto: mentre Steven Grant scopre la sua storia di origini, Marc Spector lotta contro il suo doppio per proteggerlo. C’è una morte che serve a riequilibrare e una nuova realtà da esplorare: quella del manicomio. Nonostante il logico colpo di scena che aveva fornito il cliffhanger settimana scorsa, va ammirato come il regista Mohamed Diab riesca a convincerci che ogni realtà in cui è catapultato il protagonista sia quella autentica. 

Fortunatamente non è così, la spiegazione è una e riequilibra tutto ciò che proprio non funzionava nella prima parte (e che abbiamo più volte criticato). La scala esagerata della battaglia, con i cieli che vengono capovolti senza che nessuno si allarmi – e senza che Marc pensi di controllare su qualche app di astronomia – è in realtà un minuscolo costrutto di una mente in frantumi. Il costume che si compone “alla Venom” è solo un’idea di quello che sarà il vero Moon Knight. Probabile che in futuro lo realizzerà a mano cucendo da sé maschera e mantello. Altro che CGI (ahimè brutta come sempre)!

L’episodio cinque ritrova finalmente tutto quello stile Marvel che era mancato fino ad ora. Non è difficile individuarlo, ma spesso lo si confonde. L’umorismo, il generale ottimismo, l’azione estetica e meno fisica, sono tratti comuni a molti film, ma non sono questi a realizzare la visione di Stan Lee. Possono essere messi da parte e l’essenza dei fumetti rimarrebbe.

Sucidi, abusi sui minori e la vulnerabilità

Approcciandosi alla puntata ci si aspettava una discesa nella follia tra divinità con la forma di ippopotamo e un Oscar Isaac raddoppiato senza freni alla sua recitazione sopra le righe. Abbiamo avuto: abuso su un minore, la morte tragica di un bambino e un tentativo di suicidio. Non siamo però in una serie HBO: per un prodotto dal pubblico così ampio l’effetto shock è di minore interesse rispetto alla storia. Il trauma viene quindi ripreso con delicatezza. 

Ci si ritrova così a ripensare ad Inside Out. Nel film della Pixar la giovane Riley imparava ad accettare le emozioni. A far convivere le infinite sfumature di quello che lei è. Seguendo queste ultime nel viaggio attraverso l’interiorità dell’adolescente si incontrava Bing Bong, simbolo dell’infanzia. Caduto in una zona buia e dimenticata aiuta gli altri ad andare avanti, e lì rimane imprigionato. Li saluta dal basso per permettere alla bambina a cui è appartenuto di crescere. Un sacrificio doloroso e necessario.

Non c’è una grande differenza rispetto a quello che succede a Steven. Il bravo bambino costruito per rispondere alla depressione violenta della madre si sacrifica per permettere di processare e convivere con il dolore. L’equilibrio dei due cuori sulla bilancia viene ristabilito accettando il passato, facendo i conti per uscire dalla sua prigionia, non bilanciandolo con espedienti.

In tutto questo non si vede una volta Moon Knight

È così che pensava Stan Lee: che alla fine i costumi sono infinitamente meno interessanti delle persone che li indossano. Sono solo degli strumenti per amplificare l’eccitazione e la meraviglia. Come nella grande letteratura (sia questa “alta” o “popolare”) i modelli di esistenza mitici, esemplari, non hanno ragion d’essere. Sono propaganda di regime, o ricostruzioni vitruviane di un’umanità che non esiste. Piuttosto il creativo deve trovare, anche in chi volteggia sparando ragnatele dai polsi, le contraddizioni che chiunque si porta dietro per il solo fatto di esistere.

Dell’imperfezione di Marc\Steven paga il pegno anche la serie. Scissa in due, sbrodolata all’inizio per poi ricompattarsi come raramente sono riusciti a fare in TV, è difficilissima da giudicare. Debole nelle sue singole parti, forma invece un totale incredibile che merita di essere rivisto da capo una volta finito. È divertente che questo succeda proprio grazie al quinto episodio. Cinque, come le personalità di Moon Knight. I pezzi che lo compongono. A noi manca solo di scoprire Jake Lockley, ma forse ce l’abbiamo avuto sotto il naso tutto il tempo… o solo per qualche istante durante il colloquio al manicomio.

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