Dopo pochi minuti di The Beatles: Get Back è chiaro che la docuserie ha degli enormi problemi di ritmo. Procede come una funzione religiosa, accumulando tempi e riflessioni che non portano avanti la storia, ma vanno contemplati in adorazione. Vive sulle pause, sui tempi morti, sui tentativi che non portano a nulla. Ed è questo il dilemma che deve avere affrontato Peter Jackson: radunare le 60 ore di video e le 150 di audio in un film appassionante di due-tre ore o farne una serie?

Il regista ha detto di non amare il formato seriale, con episodi brevi di settimana in settimana. Si è però reso conto, nelle prime fasi del progetto, che il materiale dei filmati di archivio catturati da Michael Lindsay-Hogg era troppo grande per essere contenuto in un lungometraggio. Quindi ne ha fatti tre. Rilasciati uno dopo l’altro in tre giorni consecutivi come tre tempi di un film interrotto dalle esigenze di palinsesto televisivo. Una struttura non tanto lontana da quella del suo Signore degli Anelli. A differenza dell’epica Tolkeniana, dove il viaggio degli Hobbit ci rimbalza su atmosfere e luoghi diversi, The Beatles: Get Back è un lento climax.

I Beatles sono riuniti per comporre un album a cui seguirà un concerto e un documentario. Hanno una scadenza strettissima. Sono meno preparati del solito. Hanno delle lacerazioni interne che stanno per arrivare al punto di rottura. Il dramma che si consuma, e l’adrenalina dello show imminente, si svolgono nell’arco di più settimane (molte ore per noi spettatori) e in una quasi totale unità di luogo. 

Peter Jackson prende una decisione drastica. Sceglie di non mettere il conflitto interno alla band come centro del documentario. Se l’avesse fatto avrebbe dovuto riequilibrare il montaggio tagliando tutto ciò che è di più, concentrando l’attenzione sui dialoghi e sui rapporti tra i membri. Invece Jackson sceglie la modestia. Fa un passo indietro: sa che dovrà selezionare il materiale e allora decide di mettersi nella condizione di doverlo fare il meno possibile. Diventa un fan dei Beatles, che officia il rito supremo: vedere il processo creativo, osservare la genesi dei capolavori, quasi in tempo reale.

Ed è per questo che Get Back fa dei problemi di ritmo una precisa scelta stilistica. Vuole immergerci nella fatica e nella lentezza dell’ingegno. Come la composizione di una canzone è fatta di tentativi, aggiunte e tagli, così anche la serie abbonda di immagini e materiali, per lasciare a chi guarda il compito di estrapolare l’esperienza totale. Un viaggio fatto di strade sbagliate, ma che vanno intraprese per vedere nuovi angoli dello stesso territorio che, in questo caso ,è la nascita di più canzoni e di un album.

beatles get back parolacce

Come solo i grandi registi sanno fare, Jackson racconta le dinamiche interne, i rapporti e i sentimenti umani, soprattutto attraverso il gesto dell’esecuzione musicale. Non servono parole o didascalie (sebbene ce ne siano per dare il contesto minimo), basta ascoltare la forza con cui pizzicano le corde o l’energia che Paul McCartney mette nel canto. Uno sfogo di rabbia, come quando leggono le notizie che li riguardano dai tabloid come fossero il testo di una canzone. Altre volte la stizza è puro gancio creativo e voglia di esprimersi.

The Beatles: Get Back non è altro che una messa laica, una rievocazione precisa, e venerante della nascita di un capolavoro. E ha tutte le ragioni del mondo ad essere così. Perché Peter Jackson non ha fatto un documentario accessibile, ma uno finalmente utile. La visione è obbligatoria non solo per i musicisti, ma per tutti i creativi che si interrogano sui processi dell’arte. Ed è sorprendente perché dimostra che nei singoli musicisti c’è quasi solo un genio sregolato che viene contenuto e incanalato dal resto della band.

Jackson si è detto stupito di avere trovato un gruppo fondamentalmente disordinato e caotico, nonostante fosse arrivato al culmine dell’esperienza. Non gli si può dare torto: quello che si vede in Get Back è ancora l’energia pura, non governata da un metodo industriale, ma da una preciso dosaggio di spunti e correzioni. Ci sono momenti straordinari in cui iniziano a suonare un motivetto, qualcuno si aggiunge, improvvisano alcune soluzioni melodiche e via: la struttura base è preparata da questa collaborazione eseguita per aggiunte di pennellate.

Quando George Harrison se ne va, crolla questa impalcatura. Il documentario non diventa però un’analisi del conflitto umano tra i membri del gruppo, bensì della crisi creativa. In questo modo il regista sfugge da qualsiasi soggettività morbosa; mantiene una rispettosa distanza verso delle fonti che spesso erano intese per restare private (ci sono microfoni nascosti, registratori che vanno avanti anche dopo che viene chiesta una pausa). Addirittura è riuscito ad ascoltare conversazioni che cercavano di celare suonando con forza sopra il parlato. Non vuole però scoprire i segreti additando colpevoli. Desidera solo imparare come la più grande band di sempre ha affrontato la sua più devastante crisi senza perdere la propria qualità artistica. 

Immaginiamo che un regista come Peter Jackson di crisi, fatiche e progetti incagliati ne sappia qualcosa. Non vedere lo sguardo curioso da “collega” con cui ha montato i video, significa perdere tutto ciò che permette alla serie di andare avanti per ore e ore ipnotizzando con i suoi vuoti e con i suoi pieni. 

Nelle inquadrature poi si alternano molti personaggi marginali, di sfondo, che non sono però meno interessanti. Ci lascia la scelta di seguirli, di indicarli e trovarli mentre entrano ed escono dalla trama. L’esempio clamoroso è Yoko Ono. Una presenza di troppo, mai giudicata dal regista. 

Lei che legge il giornale, che fa l’uncinetto mentre i quattro fanno musica, sarebbe diventata materiale comico nelle mani di chiunque altro. Una vittoria facile facile, una vignetta troppo clamorosa per non essere guardata con ironia. Bastava un primo piano un po’ più lungo o un montaggio furbo mentre le discussioni si fanno serie, per strappare una risata sicura (e di biasimo). Invece la lascia lì, marginale, vista come l’hanno vista i tecnici e i produttori che si aggiravano negli studi. Fino a che, ad un certo punto, non è proprio Paul McCartney a portarla in mezzo.

Una persona può limitare la capacità inventiva? È una causa o una scusa? Peter Jackson si fa semplice apostolo, portatore di momenti il cui significato non è esplicito. Tocca alla singola soggettività rifletterci e darsi risposte.

The Beatles: Get Back assume quindi la forma che solo un documentario sui Beatles può avere. Regala, senza timore di eccedere, continua all’infinito a dare perché nulla può essere lasciato indietro. C’è una storia nel creare storie, e non è il viaggio dell’eroe, ma quello dell’ingegno come continuo conflitto con gli altri e con sé. 

Tutto questo è commovente. Perché è sicuramente parziale (non si può mai scomparire dietro le immagini, soprattutto quando hai due registi: chi ha filmato e chi ha montato) ma Get Back è anche uno dei più straordinari lasciti della band, non ai fruitori delle loro canzoni, ma a tutti coloro che sognano di diventare un giorno come i propri idoli.

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