Il Bel Danubio Blu

A Budapest sono circa le quattro del pomeriggio.

Ad accogliermi fuori dall’aeroporto, oltre a Peter il driver che mi accompagnerà all’albergo, c’è ancora una vaga parvenza di luce del giorno.

È freschino, ma tuttosommato la temperatura è abbastanza tollerabile; e se ve lo dico io che sono notoriamente un amante delle calde temperature potete fidarvi.

Sull’iPhone il meteo segna circa 8 gradi centrigradi.

“Pensavo che sarebbe stato più freddo” rivelo all’autista.

“Ooooh, no è caldissimo! Qua il freddo, quello vero arriva più intorno a Natale, però hai avuto fortuna quello sì. Nel senso che comunque siamo qualche grado sopra la media. A proposito, sei l’ultimo giornalista che ho sulla mia lista, poi posso andarmene a casa. Come mai siete venuti da ogni parte del mondo qua a Budapest?”.

Il parcheggio dell'aeroporto di Budapest-Ferihegy

Il parcheggio dell’aeroporto di Budapest-Ferihegy

Chioso un po’ nel rispondere: normalmente, quando si effettua una set visit non si può citare pubblicamente la cosa, ma il buon Peter e il suo socio stanno facendo avanti e indietro dall’aeroporto da un paio di giorno scarrozzando giornalisti per conto della Fox quindi rispondo con un educato e poco compromettente “Siamo qua per la presentazione di un film, ma non posso dire altro, mi spiace”.

D’altronde, che la città stia ospitando le riprese di un’importante produzione statunitense non è un segreto, ma almeno, così facendo, ho tenuto fede ai miei impegni professionali.

Dall’ok poco convinto di Peter, capisco che la news relativa alla presenza nei paraggi di Ridley Scott e svariate star hollywoodiane doveva essergli sfuggita completamente. Poco male, ci avrebbero sicuramente pensato i tabloid e i quotidiani locali nelle settimane a venire a fargli fare 1+1.

“Oh, avete Tesco in Ungheria!” esclamo in automatico notando, lungo l’autostrada, un grande punto vendita della catena. Sapevo che era presente in Giappone e negli Stati Uniti (con un altro nome), ma ignoravo fosse anche nel paese dell’ex blocco sovietico.

“Sì, ce ne stanno tantissimi! A ogni modo fra poco entreremo a Budapest. Dovrò prendere le stradine del centro storico e, probabilmente, impiegheremo un po’ di tempo ad arrivare anche se la distanza è breve. È il sabato prima di Natale e ci sarà un sacco di traffico e di gente intenta a fare shopping!”.

Poco male, non ho alcuna fretta.

Mentre percorriamo le viuzze del centro della capitale ungherese, osservo negozi, vie e passanti dai finestrini del transatlantico Mercedes in cui sto viaggiando. Quelli posteriori sono oscurati e, negli attimi in cui stiamo fermi anche per cinque minuti incolonnati nel traffico, svariate persone passano accanto sui marciapiedi e aguzzano lo sguardo, cercando di capire chi sia il passeggero all’interno di un’automobile dalla superficie pari a quella di un bilocale.

Vorrei tirare giù il finestrino e gridare “It’s A-ME! BEDE!” con voce simile al doppiatore di Super Mario e constatare le reazioni, ma desisto.

Trascorsi 90 minuti in compagnia di Peter lungo un tragitto che, in situazioni extra-natalizie, può essere percorso in meno della metà del tempo, arrivo all’Hotel, situato a due passi dal Ponte delle Catene che collega Buda, la parte collinare, e Pest, quella situata in pianura.

Intanto, col calar delle tenebre, la temperatura è drasticamente scesa.

Espletate le pratiche per il check-in mi dirigo in camera per lasciare i bagagli, controllare la posta, le notifiche dei social e darmi una rapida rinfrescata: decido di rimandare la doccia rovente al dopo cena per evitare il sopraggiungere della stanchezza.

Ho quasi tutto il tardo pomeriggio libero e, visto che non ho nulla da fare, voglio curiosare un po’ per la città. E, soprattutto, respirare l’aria del Danubio, il fiume in cui mio nonno, da ragazzino, ha trascorso innumerevoli avventure. Non so quanto ve ne possa importare, ma parte della mia famiglia è originaria proprio dell’Europa dell’Est e questa è, in assoluto, la prima volta che ho modo di spingermi in quella parte del Vecchio Continente che ospita un corso d’acqua cui sono così tanto legato per questioni private e che non avevo mai avuto modo di contemplare in tutta la sua maestosità.

Le mie considerazioni vengono interrotte da un “plon” sordo che arriva dal comodino dove avevo appoggiato l’iPhone.

Sopravvissuto The Martian

La vista dalla camera dell’albergo.

Il fastidiosissimo trillo di Messenger m’informa dell’arrivo di svariati messaggi privati, che “fremono” in attesa di essere letti. Fra di essi c’è anche quello di Steven Weintraub di Collider che mi avvisa “Ehi, devo finire di montare le interviste fatte al junket di Lo Hobbit, poi dopo cena vado a prendere un bicchiere di vino al bar dell’albergo. Se vuoi becchiamoci lì, dovrebbero esserci anche gli altri colleghi dagli USA”.

Bene.

Ho almeno un paio d’ore per girovagare con calma prima di cena. Più che necessarie per curiosare nell’area intorno alla Basilica di Santo Stefano e della Grande Sinagoga specie se, ad accogliere “il baldanzoso giornalista” c’è un gelo nettamente più marcato di quello avvertito appena toccato il suolo ungherese in grado di stemperare gli stimoli da Giovane Marmotta.

Dopo aver percorso un viale posto a ridosso dell’hotel e diretto verso la monumentale Basilica di Santo Stefano abbandono subito l’idea di esplorare la piazza antistante alla chiesa: i chioschetti del mercatino di Natale sono letteralmente assiepati di persone e io sono troppo stanco per riuscire a sostenere la ressa.

Faccio dietrofront verso il lungofiume, che costeggia in entrambe le direzioni l’albergo. Vado prima alla mia sinistra – mi spiace, ma non ho idea del punto cardinale – lasciandomi alle spalle il Ponte delle Catene. L’unica parte del mio corpo sprovvista di adeguato riparo dal gelo sono le gote: il freddo comincia a spargersi su tutta la faccia sfruttando questo “punto debole”. Mentre cammino, un tram decorato con una pioggia di lucine natalizie costeggia la strada sul lato del fiume; dalla parte opposta, le persone mangiano o fanno un aperitivo sedute ai tavoli fuori dai localini e bistrot con la stessa naturalezza che ho io a luglio quando vado a cena fuori in un ristorante in riva al mare. Al posto loro, sarei già divenuto vittima dell’ipotermia.

Nel mezzo delle elucubrazioni sulla morte da assideramento cui andrei inevitabilmente incontro contrariamente agli autoctoni, butto un occhio sull’orologio dello smartphone. Sono quasi le 19. Decido di ripercorrere la strada in senso opposto e di fare una camminata sul Ponte delle Catene. Arrivato a circa metà dei 300 e passa metri che collegano le due sponde della città, sento riecheggiare nella mia testa le parole di mio nonno, di quando, da piccolo, mi raccontava di come l’aria invernale sulle rive del Danubio tendesse a essere alquanto… frizzante, per così dire.

“Winter is coming” solo che nel mezzo dell’imponente fiume che ha dato il nome al celeberrimo waltzer di Strauss Jr. questo approssimarsi non si palesa con il passaggio di inquietanti Estranei a cavallo, ma con raffiche di vento che hanno la delicatezza dei colpi di Machete. Mi viene da ridere perché penso che mio nonno, al posto mio e alla mia stessa età, si sarebbe limitato a indossare un maglione e, al massimo, una sciarpina leggera.

Io sono bardato come uno dei protagonisti di La Cosa di John Carpenter.

Sopravvissuto The Martian

Il Ponte delle Catene che unisce Buda e Pest.

Cerco di difendere la mia virilità e la mia resistenza all’agghiacciante temperatura rifugiandomi dietro la comoda scusa del “Ho fame, è quasi ora di cena, sto solo con un panino sullo stomaco dall’una e devo beccare i colleghi a una certa”.

Passando – senza alcuna fase intermedia – dai 2 gradi più vento gelido del lungofiume agli 8000 gradi celsius della lobby del hotel, avverto una stravagante e inattesa sensazione sulla pelle della faccia, come se dieci mani avessero cominciato a tirarla da ogni lato. Mi sa che Dorian Grey quando invecchia e avvizzisce dopo aver pugnalato la sua nota effige deve aver provato una sensazione simile.

Ho giusto il tempo di riacquistare contatto con la realtà post shock termico prima di concedermi una lauta cena e di incontrare Frosty, Max, Liza al bar dell’hotel e di fare quello che i giornalisti di cinema da all over the world fanno sempre quando s’incontrano qua e là per il mondo: parlare di film.

Siamo persone banali e prevedibili, anche se la t-shirt indossata da Liza, con una chiara presa in giro a Putin, offre lo spunto per parlare di qualcosa di diverso, almeno per qualche minuto, e per ribattezzare la collega come la “russian spy”.

Ma poi io e Max torniamo a parlare di Ladri di Biciclette di Vittorio de Sica e gli spiego come l’adattamento americano del titolo, The Bicycle Thief, lo abbia trasformato da plurale a singolare.

Ripeto: siamo persone estremamente banali noi giornalisti di cinema.

Verso le 23,30 decido di accomiatarmi dalla combriccola, per rifugiarmi sotto una doccia rovente prima e le coltri del letto king size poi.

La giornata che mi attende sarà lunga, stimolante, ma anche faticosa.

 

Sopravvissuto The Martian

Qui è quando ho pensato “Perché non fare una bella foto panoramica nel bel mezzo del Danubio?” subito prima di perdere per trenta minuti la sensibilità su entrambe le mani.

 

Mission To Mars

Come il risveglio pre-set visit di Exodus: Dei e Re, anche quello pre Sopravvissuto – The Martian è accompagnato dalla nebbia.

Fuori dalla finestra, il Danubio è a malapena visibile.

Sono da poco le sette di una domenica mattina di metà dicembre e la città è ancora quasi del tutto addormentata. Fortunatamente per il mio stomaco, le cucine dell’hotel sono invece ben deste da qualche ora e ho modo di consumare una colazione da circa 5000 calorie.

Il segreto, nei viaggi di lavoro, è di incamerare più cibo possibile quando se ne ha l’opportunità perché non sai mai quando avrai una pausa e quando avverrà il prossimo incontro fra il tuo apparato digerente e degli alimenti.

L’appuntamento con la publicist e gli altri giornalisti è fissato alle 8 e, come da mia prassi, arrivo con circa cinque minuti di anticipo. La mia indole di persona sempre, costantemente puntuale, mi porta a ritenere come un fallimento personale il presentarmi allo scadere esatto dell’orario fissato per un qualsivoglia appuntamento. In più aggiungete anche il fatto che sono all’estero e nel mio piccolo ci tengo a far fare bella figura all’Italia, che di fatto rappresento, e avrete il quadro completo.

Con enorme sorpresa – non solo mia – constato come il numero di professionisti dell’informazione cinematografica convocati dalla Fox sia mediamente maggiore del solito. Normalmente i gruppi che hanno accesso ai set delle produzioni hollywoodiane nei giorni in cui è previsto, sono composti da 8, 10 elementi. Questa volta siamo almeno una quindicina tanto che veniamo sistemati all’interno di un minibus.

Mi siedo in fondo, come gli studenti fastidiosi nelle gite di classe, insieme al collega francese Pierre, alla collega tedesca Katharina e a James di JoBlo.com.

Sopravvissuto The Martian

La nebbia sul Danubio

Durante i 40 minuti di tragitto che ci separano dai Korda Studios, situati a circa una trentina di chilometri a Ovest di Budapest, discutiamo – tanto per cambiare – di film, della situazione dell’editoria online e, con James, di quanto sia complicato per chi abita negli Stati Uniti cercare di mangiare in maniera decente e non ipercalorica. Il suo shock, nel momento in cui gli racconto di come note catene di Fast Food statunitensi propongano alternative come la “pasta fredda con tonno, pomodori e capperi” dalle nostre parti dice parecchio.

Fra una chiacchiera e l’altra ci ritroviamo rapidamente alla sbarra che delimita l’accesso all’imponente struttura dei Korda Studios, formati da ben sei teatri di posa dotati di ogni tipo di servizio e possibilità – da una cisterna di 100 metri quadrati per le scene acquatiche al soundstage più grande d’Europa – e svariati backlot.

Entrando possiamo notarne subito uno, quello di New York costruito per le scene di Hellboy II: The Golden Army di Guillermo del Toro ambientate nella Grande Mela.

Scesi dal minibus ritiriamo i badge. Naturalmente non possiamo fotografarli, ma, come tutti quelli in dotazione al cast tecnico e artistico, anche quelli della stampa sono modellati su quelli della NASA. Ovviamente su quelli destinati ai giornalisti non c’è stampata la fototessera. Al suo posto, la sagomina anonima di un volto.

La stanza in cui ci fanno accomodare è praticamente all’ingresso del teatro di posa. Considerato che si trova nel “crocevia” fra il corridoio che porta al soundstage vero e proprio, le toilette e un altro corridoio diretto chissà dove, l’area ristoro è opportunamente situata in questa posizione. Rassicurante sapere di avere a portata di mano un quantitativo praticamente infinito di caffeina, succhi di frutta, bibite e snack di ogni genere. Ci sono operai in ogni dove, ricetrasmittenti sempre in azione, persone che scaricano dai camion materiali di ogni tipo. E tutti sembrano gradire la vicinanza con la caffeina di cui sopra. Una volta entrati nella saletta riunioni ci sediamo e ci mettiamo a curiosare sul megaschermo. Il pannello della tv da almeno 60 pollici è diviso in quattro quadranti, ognuno dei quali collegato a una differente macchina da presa.

Vediamo in tempo reale quello che Ridley Scott sta girando (fuoriscena compresi), ma l’effetto è abbastanza straniante: la scena appare drammatica e concitata – poi avremo modo di scoprire che si tratta proprio di quella relativa alla tempesta marziana che catapulterà il personaggio di Matt Damon nella sua nuova condizione di Robin Crusoe su Marte – ma non sentiamo nulla, nonostante le due grandi casse collegate allo schermo piatto. Tutto viene risolto prontamente dal responsabile del set in maniera abbastanza intuitiva tramite la pressione del tasto “Power”. Purtroppo per le nostre orecchie il volume era rimasto settato a livello “spaccatimpani” e, per qualche secondo, restiamo storditi dalle grida degli attori e dal rumore del vento generato artificialmente.

Restiamo lì dentro ad aspettare, a chiacchierare e a fare avanti e indietro con l’area ristoro. Dopo una ventina di minuti, ci viene comunicato che, prima di cominciare a intervistare i vari talent artistici e tecnici, ci avrebbero diviso in tre mini-gruppetti e condotto all’interno del teatro di posa per assistere alle riprese.

Sopravvissuto The Martian

A Budapest il Natale viene preso molto sul serio.

Io sono nel secondo gruppo.

Dopo circa dieci, quindici minuti, il primo team ritorna nella saletta. Sono tutti estremamente divertiti e ricoperti di polvere argentata e color antracite, glitterati da capo a piedi come Jem e le Hologram. Non ricordo chi dei colleghi ci consiglia di indossare la giacca perché “là dentro fa davvero freddo, poi i ventilatori hanno sollevato tutta questa polvere, finisce dappertutto!”.

Scortati dal responsabile del set imbocchiamo il corridoio che, una volta usciti dalla stanza, vira verso destra. Oltrepassiamo una di quelle grandi porte coi maniglioni antipanico e ci troviamo in una sorta di ballatoio usato come passaggio di materiali e persone. Davanti a noi un telone nero che si estende a perdita d’occhio tanto in altezza quanto in lunghezza, formando come un gigantesco cono di cui non riusciamo a vedere gli estremi. Nonostante avessi avuto già modo di assaggiare coi miei stessi occhi il gusto per il grandeur di Ridley Scott, non posso non restare stupito per l’ennesima volta. Immaginate il sipario teatrale più grande che vi sia mai capitato di vedere, moltiplicatelo per cento e avrete una vaga idea delle dimensioni di quel drappo. Nell’aria, effettivamente parecchio fredda, c’è quel tipico odore da officina che si sente nel garage del meccanico.

Mettiamo piede sul set per mezzo di un’apertura nel tessuto – poi durante le varie interviste avremmo scoperto una cosa abbastanza ovvia, ovvero che si trattava di un gigantesco green screen alto almeno una ventina di metri – e ci ritroviamo improvvisamente nella notte marziana. La zona interessata dalle riprese è leggermente rialzata rispetto al resto, di almeno un metro, ed è raggiungibile tramite delle scalette. È un area circolare, ma non riusciamo a capire bene quanto possa o non possa essere grande perché non riusciamo a scorgere la fine: fra penombra, nebbia artificiale e polvere è letteralmente impossibile. Considerati i 6000 metri quadrati dello Stage 6 sospetto che il diametro sia di qualche decina di metri. A illuminare la notte artificiale, un diffusore posto in alto sopra le nostre teste. E per in alto intendo qualcosa tipo “in cima a un palazzo da 5 piani”. Veniamo piazzati a una decina di metri sul lato sinistro della postazione di Ridley Scott e tentiamo di capire chi siano gli attori che si stanno riposando davanti a noi. Data la scarsa visibilità solo l’altezza poteva farci capire chi fosse Matt Damon e chi Sebastain Stan, mentre le più minute Jessica Chastain e Kate Mara erano indistinguibili da quella distanza. Intanto il responsabile del set ci fa notare tutti i particolari: i giganteschi ventilatori che, di lì a poco, avrebbero azionato per simulare la

Sopravvissuto The Martian

Io sarò anche freddoloso, ma a Budapest la temperatura era oggettivamente rigida.

tempesta, il pod marziano e le antenne per le trasmettere le comunicazioni degli astronauti, le cui sagome sono visibili a tratti con le loro lucine a intermittenza. La scena che stanno per girare è estremamente importante: si tratta del passaggio in cui Mark Watney (Matt Damon) viene dato per disperso e morto dopo la furiosa tormenta marziana (quella che si vede nel primo trailer, ndr.). Gli attori, sul set già dalle prime luci dell’alba, vanno incontro a uno sforzo fisico enorme, reso ancor più intenso dalle tute spaziali indossate. Per questo motivo il personale sanitario – sempre e comunque presente sul set di un film – è quantomai pronto a far fronte a qualsiasi inconveniente di sorta: anche se tutto è andato per il meglio, ripetere i take di una scena come questa non è una passeggiata di salute, anche per una mera questione respiratoria. Il terreno su cui appoggiamo i nostri piedi è fatto di sassi rossicci e altri più scuri, grigi: sono riuscito a distinguerne il colore prendendone una manciata e sfruttando la poca luce presente.

Purtroppo non riusciamo ad assistere materialmente al nuovo take della scena per una questione di sicurezza e veniamo riaccompagnati nella saletta riunioni dove, di lì a poco, sarebbero cominciate le nostre interviste con i protagonisti e i realizzatori di The Martian.

Non avrei mai pensato che un viaggio andata e ritorno dalla Terra a Marte andata e ritorno sarebbe stato così breve.

Il vostro, invece, è appena cominciato.

***

Con un cast di eccezione composto da Matt Damon, Jessica Chastain, Jeff Daniels, Sean Bean, Kristen Wiig, Kate Mara e Sebastian Stan, la produzione della pellicola si è svolta, nell’arco di 4 mesi, tra Giordania (vallata del Uadi Rum) e Ungheria (Budapest, Korda Studios).

Damon interpreta un astronauta che viene misteriosamente abbandonato su Marte dal suo equipaggio. Dovrà cercare di sopravvivere per tutti e quattro gli anni necessari perché un nuovo equipaggio venga a recuperarlo, senza possibilità alcuna di comunicare con la Terra.

Simon Kinberg, Aditya Soodb e lo stesso Scott hanno prodotto la pellicola.

Questa la sinossi del film:

Durante una missione su Marte, l’astronauta Mark Watney ( Matt Damon ) viene considerato morto dopo una forte tempesta e per questo abbandonato dal suo equipaggio. Ma Watney è sopravvissuto e ora si ritrova solo sul pianeta ostile. Con scarse provviste, Watney deve attingere al suo ingegno, alla sua arguzia e al suo spirito di sopravvivenza per trovare un modo per segnalare alla Terra che è vivo.

A milioni di chilometri di distanza, la NASA e un team di scienziati internazionali lavorano instancabilmente per cercare di portare “il marziano” a casa, mentre i suoi compagni cercano di tracciare un’audace, se non impossibile, missione di salvataggio.

Il film è basato sul romanzo best seller “The Martian” di Andy Weir.