Certo che, a leggere alcune interviste rilasciate in passato, ci si potrebbe fare un’idea piuttosto negativa dell’uomo Nicolas Winding Refn.

Regista di grido, stella emergente del panorama cinematografico indipendente, con all’attivo una collana di perle di cruda realtà “espansa” – come da lui stesso dichiarato – che comprende Pusher, Bronson, Valhalla Rising e Drive, nonché l’ultimo Solo Dio Perdona, accolto a Cannes da giudizi contrastanti (leggi la nostra recensione). E a Refn non pare vero di essere amato e odiato, perché è con lo spirito di un Sex Pistol che, dice, si è gettato nella grande pantomima del Festival più prestigioso del mondo (che gli donò la fama internazionale qualche anno fa grazie alla vittoria del premio come Miglior Regia proprio per Drive) per “dividere, tra odio e amore”, tra detrattori e fan sfegatati di questo suo cinema, visivamente figlio di stilemi rigidi e sofisticati, al servizio di un racconto pervaso di abbrutimento e pregno di sangue.

A leggere le interviste rilasciate in passato, dunque, si potrebbe pensare che Nicolas Winding Refn sia un po' un presuntuoso intellettuale con tanta, troppa rabbia repressa. E ci si sbaglierebbe di grosso. Dietro l’aspetto da ragazzo educato e graziosamente nerd, il quarantaduenne regista danese naturalizzato americano cela un insospettabile senso dell’umorismo. A chi, tra il folto gruppo di studenti della scuola di cinema Nuct di Roma e degli Atenei di Napoli accorsi alla masterclass organizzata all’Hotel Visconti, lo addita come “nuovo Tarantino”, Refn conferma la sua grande ammirazione per il collega e sottolinea di non poter essere la nuova versione di qualcuno che vecchio ancora non è. C’è chi coglie la palla al balzo per ricordargli che Tarantino stesso definì Drive “una splendida occasione mancata”, ma il danese non si scompone: “Un semplice segno di gelosia!”

 

Un cineasta colto, che dedica Solo Dio Perdona ad Alejandro Jodorowsky, maestro spirituale che una volta, facendogli le carte, profetizzò “You’ll drive”. E Refn, per la cronaca, non ha nemmeno la patente. Attinge a piene mani dagli spaghetti western, dalle fiabe dei fratelli Grimm che legge alla sua bambina e dalle tragedie di Shakespeare, perché “tutti noi siamo il prodotto di ciò che abbiamo vissuto, di ciò che abbiamo letto. È inevitabile riversare in quel che facciamo la nostra cultura ed il nostro passato. In Solo Dio Perdona, il personaggio di Kristin Scott Thomas richiama Lady Macbeth, presentata però con un look che ricorda Donatella Versace. Ma non c’è solo Shakesepare: d’altra parte, ho sempre amato molto anche le favole, così ricche di sottotesti; le puoi leggere e rileggere e trovarci sotto un universo di significati, un mondo di messaggi che ti rimangono dentro. Mi piacerebbe riuscire a realizzare film che siano, in un certo senso, delle favole, perché questa narrazione esagerata, questa realtà alterata mi affascina e rientra nelle mie corde.”

Un autore in contrapposizione con l’ottica hollywoodiana per rispetto degli spettatori prima ancora che per una presunta superiorità poetica:

Abbiamo l’obbligo di rispettare il pubblico, è importante dare qualcosa in quell’ora e mezza in cui lo costringiamo in sala, perché quel tempo non lo potrà mai più recuperare. E quel qualcosa deve permanere anche all’uscita della sala cinematografica, andare al di là del mero consumo, essere violenza nel senso positivo del termine: l’arte è un’esperienza che viene praticamente imposta, ti entra dentro a viva forza; tutte le vere opere d’arte sono proiezione delle emozioni più violente della vita. Alcuni le amano, altri le detestano, ma nessuno resta indifferente.

 

 

Ci sa fare col pubblico, Refn, e non solo quando ha la macchina da presa in mano. Non ci si potrebbe aspettare nulla di diverso da un autore che ha, come dichiarata costante della propria carriera, la volontà di coinvolgere i propri spettatori in un gioco intenso come un rapporto sessuale. Lo stesso rapporto sessuale spesso assente dalla sua cinematografia, perché “non mi piace vedere il sesso, mi piace farlo ma al cinema lo trovo incredibilmente noioso. Cosa c’è di bello in qualcosa che fa parte della vita di tutti noi? Preferisco lavorare su ciò che non si vede, suscitare sensazioni in maniera più sottile”. Per questo, dovendo raccontare le pulsioni animali dell’uomo, sceglie di concentrarsi sulla violenza più dirompente, altro topos del suo cinema. “Nella vita reale, la violenza è distruzione: al cinema, diventa una forza liberatrice.”

Se Dio perdona, come recita il titolo del suo film, Refn non fa lo stesso: ricorda infatti con livore l’abbandono del set da parte del protagonista inizialmente scelto, l’inglese Luke Evans.

Lasciò il progetto a pochi mesi dalle riprese, subito dopo la mia vittoria a Cannes. Mi dissero “ehi, è stato ingaggiato per un ruolo ne Lo Hobbit!”. Io pensai: “Ca**o, abbandoni il set per fare un film girato in CGI?”. Adesso, quell’attore – di cui non riesco proprio a ricordare il nome – recita la parte del villain in Fast & Furious 6. Se ci ripenso, mi dico che abbandonare il set è stato il più grosso favore che potesse farmi in tutta la sua vita.

Sorge una certa tentazione di alzare la manina e dire a Refn che qualunque agente dotato di buon senso avrebbe costretto il proprio attore a fare la stessa identica scelta di Evans, a costo di puntargli un mitra alla schiena. Con tutto il dovuto rispetto del controverso Solo Dio Perdona, salvato in extremis dal fedele Ryan Gosling, subentrato a Evans. Durante una cena, Gosling sollevò Refn dai suoi dubbi riguardo le riprese, rafforzando con quest’ultimo film un proficuo sodalizio iniziato con Drive. “Torneremo ancora a lavorare insieme” anticipa il regista, “ma probabilmente in una commedia.” E rispondendo all’ironica provocazione di Francesco Alò, moderatore dell’incontro, che rimarca la scarsità di battute dei personaggi interpretati da Gosling in entrambe le pellicole, dice ridendo:

“Da sempre, faccio il contrario di ciò che ci si aspetta da me. Il prossimo ruolo di Ryan sarà completamente parlato, non starà zitto neppure un secondo. Sarà il film più parlato che abbiate mai visto!”

 

 

Non manca, infine, di galvanizzare un’ultima volta gli animi dei tanti ragazzi presenti all’incontro:

I giovani sono impavidi, sono fonte d’ispirazione. Sono il futuro, e devono credere in loro stessi. Io sono riuscito a fare il mio primo film senza aver frequentato scuole di cinema: non avevo nulla in mano, se non la mia capacità di fingere di essere un genio. Quando sei al tuo primo film, devi sfoggiare l’arroganza della gioventù. Devi credere, o almeno far credere, di essere tu l’unico genio, di essere in grado di camminare sulle acque, di essere la cosa più straordinaria di tutto l’universo. Hai bisogno di questa fiducia in te stesso. Magari non è vero, ma ciò che conta è dare l’illusione di esserlo.

E c’è da dire che, a prescindere dall’amore o dall’odio per la sua filmografia, questo occhialuto giovanotto danese ha dimostrato finora un eccellente talento d’illusionista, tanto da non aver ancora rivelato, al suo variegato, combattuto pubblico, nemmeno la vaga ombra dei dozzinali trucchetti a cui un certo cinema pseudo-autoriale ci ha tristemente abituati.