Che Eli Roth sia un grande fan di Ruggero Deodato lo si sa da tempo, almeno da quando in Hostel: Part II non solo chiese al regista italiano di interpretare uno dei cannibali, ma al suo primo giorno di set convinse tutta la troupe a vestirsi con delle magliette con la scritta Cannibal Holocaust. Impossibile non partire quindi da qui per parlare di The Green Inferno, nuovo lavoro del regista americano che, come la pellicola italiana del 1980, è ambientato in Amazzonia e ha come protagonisti una comunità di cannibali pronti a torturare e mangiare chiunque entri nel proprio territorio.

Loro vittime in questo caso sono un gruppo di giovani ambientalisti americani scesi in Perù addirittura per salvarli dalla deforestazione della zona. Purtroppo per loro una volta incontrati i villici non c’è spazio per le presentazioni di rito, in quanto questi li catturano immediatamente e li mettono in gabbia in attesa di trasformarli nei protagonisti di pranzi e cene future.

Gli elementi per uno splatter fatto bene ci sono tutti, a partire dal gruppo di protagonisti, una compagnia di ingenui ragazzi spinti da un idealismo da quattro soldi che Roth si diverte a più riprese a prendere in giro. Ci sono le tre ragazze formose di cui inquadrare ogni tanto il bel seno o da mettere a nudo (seppure ricoperte di sabbia bianca) nel finale, c’è l’eroe che si sacrifica e c’è il cattivo della compagnia con il suo bel segreto da rivelare a metà film.

I cattivi, come detto, sono quelli che sono e fanno ciò che ci si aspetta. Roth prende tutti questi ingredienti e li mescola senza particolare creatività narrativa in un film che funziona, senza però esaltare. Non c’è nessuno spunto particolarmente rimarcabile, l’evirazione femminile di cui si parla nel prologo della storia mette paura, ma non viene affrontata fino in fondo tanto cha la percezione che comunque alla fine le cose si sistemeranno è sempre presente. Se Deodato nel suo film derideva il ruolo dei mezzi di comunicazione moderni, Roth dedica alla questione giusto un accenno, preferendo concentrarsi sull’ambiguo discorso dell’ambientalismo da salotto.

L’umorismo riesce, la tensione c’è a tratti e il film non è assolutamente male, ma da un regista che è stato fermo (almeno cinematograficamente parlando) dal 2007 era normale aspettarsi qualcosa di più.