La giostra del millennio ruota senza sosta e sempre più veloce, travolge vite, sogni, tradizioni e si schianta in un finale di secolo in cui, con un ultimo e insperato colpo di coda, all’uomo viene offerta l’occasione di ottenere da solo la propria salvezza, di diventare il profeta di se stesso. Questo è Angels in America, riduzione televisiva dell’omonima opera teatrale di Tony Kushner, diretta da Mike Nichols e trasmessa dalla HBO nel 2003. Odissea urbana sullo sfondo della diffusione dell’AIDS negli anni ’80, ritratto degli Stati Uniti spogliati della loro identità, privi di simboli e di punti di riferimento, completamente allo sbando. Un’opera magnifica e visionaria, stratificata e alta nei riferimenti, con un cast stellare e alcune tra le sequenze più indimenticabili della storia della tv recente: un capolavoro.

La splendida intro, sulle note di Thomas Newman, ci trasporta a volo d’angelo lungo alcune delle più riconoscibili costruzioni degli States: il Golden Gate Bridge di San Francisco, il Gateway Arch di St. Louis, la Sears Tower di Chicago, l’Empire State Building di New York fino a concludersi proprio a Central Park. Qui infine si scende in picchiata fino a stringere sul volto dell’angelo della Bethesda Fountain, che si anima e ci guarda. Fin da principio, Angels in America è quindi un viaggio ideale che abbraccia da costa a costa gli Stati Uniti, raccogliendo contraddizioni, problematiche, tensioni nascoste. L’AIDS è il punto di partenza, il motore della storia, ma la miniserie non è solo questo, non è un semplice racconto di denuncia come può esserlo il recente The Normal Heart. È qualcosa dalla portata più universale, filtrata attraverso le storie di un gruppo di personaggi per caso o per destino legati tra loro.

Nel 1985 Prior Walter (Justin Kirk) è un giovane che confessa al suo compagno Louis Ironson (Ben Shankman) di aver contratto il Sarcoma di Kaposi – lo definirà “il purpureo bacio dell’angelo della morte” – causando in quest’ultimo una reazione di paura. Allontanandosi, celando il proprio timore dietro una fredda maschera di razionalità, Louis finirà per incontrare l’avvocato Joe Pitt (Patrick Wilson) a sua volta sposato con Harper (Mary-Louise Parker) a cui nasconde la propria latente omosessualità. Joe intanto si avvicina al suo mentore Roy Cohn (Al Pacino), anche lui omosessuale e anche lui gravemente malato. Mentre i molti personaggi cercano di venire a patti con le loro contraddizioni e rifiuti personali, giunge anche Hannah (Meryl Streep), madre di Joe, che tuttavia finirà per legare con Prior in ospedale. Su tutte queste miserie umane si stringe lo sguardo, spesso indecifrabile, dell’angelo dell’America (Emma Thompson), che giunge a Prior sotto forma di visione e gli annuncia di essere un profeta atteso.

Angels in America è innanzitutto un’opera televisiva incredibilmente stratificata, che sovrappone più toni, che scommette perennemente se stessa, che sorprende ad ogni svolta, difficile da decifrare e da inquadrare. Il sottotitolo dell’opera teatrale originale, a sua volta ispirato a quello di uno spettacolo di George Bernard Shaw, è “Fantasia gay su temi nazionali”, mentre le due parti in cui è divisa la miniserie si intitolano Millennium Approaches e Perestroika: è un buon punto di partenza. Essenzialmente la visione di Kushner/Nichols è surreale, assurda, quasi impossibile da equilibrare con il senso del dramma che una vicenda del genere dovrebbe trasmettere. La scommessa vinta è quindi quella di riuscire a conciliare non soltanto uno stile così personale – fatto di sogni ad occhi aperti, allucinazioni condivise, manifestazioni angeliche, visioni incomprensibili – con la trattazione di un tema così delicato come quello dell’AIDS, ma anche con uno sguardo all’America che era negli anni ’80, quella reaganiana in cui la storia è ambientata, che è negli anni ’90, quando viene scritta l’opera, e che è ancora nel 2003, quando la HBO trasmette la miniserie. I temi sono universali, eterni, fortissimi, e i personaggi quasi ne sono travolti, diventandone l’emblema e la rappresentazione concreta.

Infrazioni della quarta parete a parte, come quando sentiamo in un bar un piano che suona il tema della serie in chiave jazz, non è quindi un caso che si sia scelto di far interpretare allo stesso attore più ruoli, come in origine. Ecco quindi che Emma Thompson rimane legata alla figura angelica, ma interpreta anche una vagabonda e un’infermiera (in questo caso ad un certo punto la regia si permette di inquadrarne la testa attraverso la luce di una lampada che richiama l’aureola). Meryl Streep invece interpreta anche il rabbino Isidor Chemelwitz (che alla sua prima apparizione definirà l’America “the melting pot where nothing melted”), ma anche lo storico personaggio di Ethel Rosenberg. Tra gli altri anche Jeffrey Wright, che è anche l’unico membro del cast dell’opera teatrale ad apparire, e che interpreta i personaggi di Belize e Mr. Lies. Il lavoro del cast, per interpretazione, capacità di mettersi in gioco e di lavorare su così tanti livelli, è eccellente. Ogni personaggio non è solo se stesso, ma vale anche e soprattutto per il simbolo che rappresenta.

Come il personaggio di Ben Shenkman, che sostiene l’anima più razionale e puntualmente sconfessata del discorso. Sarà lui ad affermare, di fronte a Belize, che “non ci sono angeli in America, c’è solo la politica”. Ma non sono soltanto gli angeli ad essere andati via (anzi, loro sono rimasti): sono la religione e le istituzioni in generale ad aver fallito. Nel decennio della presidenza Reagan il sentimento di abbandono di una vasta fetta sociale diventa la condizione di sconfitta dell’intera società americana, che si vede colpita là dove era più forte: nei suoi valori di patria, libertà e religione civile. I protagonisti sono mormoni, ebrei, cattolici e tutti loro, sistematicamente, falliscono nel tentativo di ottenere risposte e aiuto dalle istituzioni (qualcuno a un certo punto ribatterà: “i cattolici credono nel perdono, gli ebrei credono nella colpa”). È la fine del Novecento, Dio ha abbandonato l’umanità – ci viene detto pure il giorno, il 18 aprile 1906 – ed è tempo che la sua creatura impari a cavarsela da sola. Perché, come ci viene detto in conclusione, il tempo continua a correre, non aspetta, e non ha senso lottare per frenarlo.

Lo scomparso Robert Altman cercò di raccontare tutto questo per vari mesi negli anni ’90, ma dovette rinunciare. Fu comunque il primo a suggerire Al Pacino. Lo stesso Kushner tentò di condensare il film in tre ore, ma non ci riuscì finché, quando ormai il millennio tanto atteso era giunto, fu la HBO a garantire la libertà creativa necessaria alla trasposizione dell’opera. E Angels in America, anche grazie alla mano di Mike Nichols (Il laureato) è davvero un’opera carica di creatività. Lo è nella sua fusione di stili, come detto, che spaziano dal dramma sentito, ma nemmeno per un secondo ricattatorio, all’ironia e all’esagerazione più sfrenata, come nelle erezioni del protagonista che si accompagnano alle apparizioni angeliche. Ma in questa storia di redenzione, sesso, affermazione della libertà c’è anche spazio per finezze più nascoste, come i moltissimi riferimenti all’opera cinematografica di Jean Cocteau nelle sequenze oniriche che omaggiano i suoi Orfeo e La bella e la bestia.

Il New York Times lo definì come “la più grandiosa trasposizione di un’opera teatrale americana dai tempi di Un tram che si chiama desiderio di Elia Kazan”. Angels in America è, più banalmente, un’opera straordinaria, ricchissima, che ha moltissimo da offrire e che va riscoperta.