Doveva essere l’edizione dei nuovi talenti, che aveva scelto di non prendere sempre i soliti grandi cineasti per scoprire qualcosa di nuovo ma il palmares (in linea di massima molto condivisibile e corretto) parla di un festival che ha brillato grazie ai nomi noti.
Dopo 10 giorni di Cannes possiamo dire che le scoperte del festival di quest’anno sono pari a zero (almeno in Selezione Ufficiale) e i cineasti sconosciuti che sono stati presentati hanno tutti deluso (tranne Girl vero vincitore morale ma era in Un Certain Regard). In generale i film visti sono stati però molto migliori delle ultime due annate che avevano deluso a fronte di una line-up che faceva paura per i nomi coinvolti. Stavolta almeno il 50% dei film del festival hanno lasciato il segno e la giuria l’ha riconosciuto. Difficile essere in disaccordo con i film coinvolti nel palmares (a prescindere da quale premio è andato a chi) e con gli esclusi.

In un’edizione che doveva premiare le donne a tutti i costi queste non hanno conquistato la Palma. Tanto meglio. Sarebbe suonata pretestuosa e forzata. Sarebbe sembrata un’unica grande quota rosa. Invece sono meritati i premi ad Alice Rohrwacher (anche se è assurdo che al suo buon film sia andata la miglior sceneggiatura, cioè il comparto più scombinato e fallace di tutto Lazzaro Felice) e Nadine Labaki con Carphanaum (ricattatorio molto ma anche un tour de force di regia e scrittura davvero impressionante).

A ricordare a tutti che viviamo nel post-Weinstein ci ha pensato Asia Argento, chiamata a premiare la miglior interpretazione femminile con un gesto molto naive da parte del festival, la quale dal palco ha fatto un discorso di attacco e persecuzione a tutti i Weinstein ancora a piede libero. Mentre per Harvey Weinstein proprio ha lanciato una specie di anatema che suonava come un bando da Cannes. Fatto da lei però invece che dal festival.

Per capire quanto non fosse attesa la cosa e quanto fosse strana guardare a 0.18 l’espressione di Nadine Labaki tra il pubblico, invece per capire quanto il tono, lo slancio e l’intepretazione del discorso abbiano funzionato guardare alla fine lo sguardo colmo di swag di Ava DuVernay accanto ad Asia Argento, sembra dire “Yeah baby!”.

Quello che quest’edizione di Cannes sancisce, sia con i premi che con i film su cui ha messo una luce, è finalmente una fotografia d’insieme di come diversi contributi al cinema in tutto il mondo si possano somigliare, esprimendo una tensione omogenea, pur nelle differenze di stile, verso la comprensione umana. Se c’è un sentimento che emerge forte da questo festival è questo. Comprensione per l’altro in BlacKkKlansman, in cui la lotta tra neri e bianchi è una continua mediazione tra chi chiede soddisfazione con la violenza e chi vuole invece risolvere pacificamente; comprensione di un mondo che cambia e di un amore che non si concretizzerà mai in Ash Is Purest White di Jia Zhangke; comprensione di un bambino indurito fino all’inverosimile in Capharnaum e di uno scemo buono che tutti sfruttano in Lazzaro Felice; comprensione di una persona buona messa sulla cattiva strada che non sa più che fare per riconquistare i suoi unici amici in Dogman; comprensione del mondo in Under The Silver Lake e Cold War; comprensione di cosa significhi ribellarsi là dove sembra davvero impossibile in Leto e Three Faces (non ironicamente gli unici film i cui cineasti non erano a Cannes perché trattenuti nei loro paesi per motivi politici).
Un festival povero di sonno e pieno di momenti onesti (e anche disonesti) di commozione. In cui anche i più duri come Garrone, Pawlikowski e David Robert Mitchell hanno portato protagonisti tenerissimi.

L’Italia prende due premi, è il paese più rappresentato sul palco finale e conquista quasi tutti. Dal 2008 non facciamo che vincere premi in tutto il mondo. Tutti meritati.

Quel che conta di più è che Dogman e Lazzaro Felice, anche prima dei premi, erano tra i film più adorati, assieme a Burning di Lee Chang-dong (vero esluso). Soprattutto usciamo con a testa alta per aver portato cinema fuori dai canoni da un maestro e una emergente (Alice Rohrwacher è solo al terzo film), film che anche nei loro momenti meno riusciti hanno una personalità pazzesca, vomitano idee a getto continuo e sembrano non imitare nessuno. In particolare Marcello Fonte, miglior attore, è la dimostrazione della maniera assurda con cui Garrone concepisce i suoi film, prima un’idea di trama poi il casting dei corpi e dei volti e poi si completa il film intorno a loro arrivando a cambiare il finale (è capitato in Dogman) in virtù del percorso fatto con l’attore per adattarlo a lui e alle sue caratteristiche. Con un po’ di fortuna Dogman potrebbe anche avere un buon botteghino (mentre Lazzaro Felice con la promozione che ha e la locandina che ha, avrà vita più dura).

Infine ha vinto Hirokazu Kore’eda, e non ci sono parole per descrivere la felicità. Il miglior film del festival tutto prende il premio più alto. Era da La Vita d’Adele che alla Palma d’oro non era abbinato un film che promuovesse la bontà di questo premio invece che reiterare l’idea che il cinema d’autore sia qualcosa di astruso e lontano dalle persone. Chi andrà a vedere Shoplifters si troverà di fronte ad un film di mostruosa delicatezza, cinema sofisticatissimo e complicato in cui lo sguardo conta tantissimo e magari recupererà Little Sister e Ritratto di Famiglia con Tempesta, alcuni dei suoi film usciti in Italia (dimostrando una certa lungimiranza e gusto). Storia di una non-famiglia di ladri e rapitori che i fatti condannano ma sono salvati solo dallo sguardo innamorato del regista, l’unico che pare comprenderli. Guardare qualcuno in una certa maniera può cambiare la comprensione che ne abbiamo.
Il cinema asiatico che era sembrato in flessione negli ultimi anni torna ai vertici ed era davvero qualcosa di cui avevamo bisogno.

https://www.youtube.com/watch?v=w4NKmFK7C1E

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