E’ cosa nota come la prima edizione italiana di Principessa Mononoke, uscita nel 2000 e successivamente utilizzata per i DVD, non sia assolutamente all’altezza dell’originale. Non solo ha un doppiaggio abbastanza poco curato e assimilabile a quelli televisivi ma soprattutto è la qualità della traduzione e dell’adattamento a rendere per moltissimi versi diversi quel film una versione banalizzata e semplificata del lavoro di Miyazaki.

Era cosa nota ma come spesso capita quando si sperimenta la differenza è impossibile non rimanere stupefatti. Ora infatti è finalmente possibile fare un confronto grazie alla versione che la Lucky Red distribuisce da questo Giovedì al cinema, con i dialoghi riscritti e riadattati da Gualtiero Cannarsi, che ha anche curato il nuovo doppiaggio. Dire che “ora è un altro film” è un tipico espediente di marketing per convincere il pubblico a rivedere un film che già conosce, ma stavolta è così.

Si può insomma dire senza timore di smentita che quest’edizione di La principessa Mononoke è di gran lunga migliore della precedente, cosa evidente sia nelle minuzie (molte frasi erano state cambiate e soppresse, altre tradotte con poca abilità nell’italiano, altre ancora acquietate) sia a livello generale (c’è un italiano aulico bellissimo che rende meglio la scelta miyazakiana di un giapponese antico).

 

 

Grazie ad un nostro lettore che ci ha segnalato il forum in cui lo stesso Cannarsi si dilunga nella spiegazione delle molte differenze e motiva tante diverse scelte (una vera e propria appendice in stile “note del traduttore”) è stato possibile andare ancora più in profondità nelle differenze tra le versioni, confermando molte delle impressioni avute durante la visione e fornendo nuovi stimoli.

Ad esempio, come riportato, c’è questo passaggio tra Ashitaka e Moro (la madre dei cani selvatici con cui vive Mononoke) che si svolge di notte fuori dalla grotta che non solo è molto diverso dall’originale ma svela una crudezza nelle intenzioni che (finalmente) fa il paio con quella delle immagini.

MORO: Se da te si fosse levata anche una sola voce, un solo lamento, ti avrei sbranato… è stato un peccato!

ASHITAKA: È un bosco splendido…!/ (DS) Il nume Okkoto non si sta ancora muovendo?

MORO: Torna nella grotta, ragazzino…! Tu non puoi sentirle… le grida del bosco che viene divorato dai cinghiali…!/ Io quassù, col corpo che s'imputridisce, tendendo l'orecchio alle grida del bosco… sto aspettando quella donna…! Sognando l’istante in cui le azzannerò quella sua testa!

Ma come si legge anche al di là della fedeltà in una certa crudezza dei dialoghi c’è un tono generale molto elevato della lingua, un fare arcaico e formale molto insistito (quasi tutti quando vengono chiamati hanno davanti al nome l’appellativo “Sommo”), questo si deve sia a com’è il giapponese dell’edizione originale sia alla volontà di Miyazaki di mettere in scena un certo mondo come spiega sempre Cannarsi:

Il testo originale è in effetti piuttosto sofisticato. Intanto è pieno di forme arcaiche, sia in lessico che sintassi. Da un lato abbiamo il protagonista, che è un emishi, e viene ritratto dal regista come "il buon selvaggio", ovvero la figura del membro di una società più antica del "moderno e civilizzato" Giappone (del 1600), ma proprio per questo più "civile", più "dignitoso". Abbiamo poi la società giapponese in cui si mischiano nobiltà e dialetto (dell'area di Tottori, se ben ricordo). C'è una certa ricerca nel lessico. Compaiono come niente termini del registro linguistico buddhista medioevale (cose che oggi in giapponese significano altro, ma nel film si intendono come nel 1600), oppure riferimenti più o meno precisi al folklore. Addirittura, i famosi 'cani montani', ho infine scoperto, che sono quello che si chiama in italiano 'cani selvatici'. Poiché il Giappone è un territorio prevalentemente montuoso, per il loro lessico ciò che non è 'urbano', o comunque 'domestico', è 'montano', non 'selvatico' – la montagna è per loro il concetto della 'natura incontaminata' come per noi il bosco, la selva, da cui nella nostra lingua 'selvatico', 'selvaggio', 'inselvatichito', etc. Nel 1600 la tassonomia giapponese non aveva ancora distinto i 'lupi' (ookami), quindi i lupi -come li si chiama oggi- erano chiamati 'cani selvatici'.

Interessanti come siano resi in maniera più complessa i rapporti meno centrali come quello con Kaya

Tornano a noi, sempre per esempio, la famosa 'presunta fratellanza' tra Ashitaka e Kaya. La cosa è sufficientemente oscura nel testo che gli attori stessi -dico giapponesi- non avevano capito la situazione. Miyazaki gli avrebbe poi spiegato che "vedete, anche se lo chiama "Sommo Fratello", Kaya sarebbe la futura sposa di Ashitaka. In questo piccolo villaggio antico tutti essenzialmente si chiamano 'Sommo Fratello', o 'Somma Sorella', o cose così". Eppure non è che nel testo la cosa sia poi mai spiegata

E ovviamente ne guadagna molto la relazione con Mononoke, il cui nome sebbene lasciato così nel titolo è tradotto sempre letteralmente come “principessa spettro”, un epiteto, quasi un soprannome.

Infine da notare che la chiusa del film è modificata. Innanzitutto è evidente come sia arricchitto il breve monologo di Lady Eboshi, in cui rimarca l’ironia dell’esser stata salvata da un animale del bosco, e soprattutto è finalmente ben tradotta l’ultima battuta del film che spetta al monaco Jigo. Originariamente sentenziava un terribile “alla fine la natura ha vinto” e adesso invece ripete una specie di detto giapponese che recita (più o meno, cito a memoria) “non si può vincere contro gli stupidi”, molto più ambiguo e meno riferito ai fatti in questione.

L’unica piccola pecca, almeno a parere di scrive, è il cambiamento della bellissima espressione con la quale Ashitaka spiega le intenzioni che lo guidano nel suo viaggio: “Vengo con occhi non velati dall’odio” in “Vengo con occhi non offuscati”. Senza entrare nel merito della correttezza della traduzione (che non ho motivo di dubitare sia più accurata in questa nuova edizione, come il resto del testo), era un’espressione dotata di un senso più profondo e intenso pur non mutando di troppo il significato. Ma sono inezie rispetto all’ottimo lavoro fatto.