Era l’evento dal vivo più atteso del Bif&st 2015. Con tutto il rispetto per Costa-Gavras. Edgar Reitz, Jean-Jacques Annaud e Margherete Von Trotta… la masterclass di Nanni Moretti batteva tutto e tutti in termini di curiosità di pubblico e giornalisti (molto arrabbiati alla fine). L’uomo è parco di apparizioni pubbliche e il suo nuovo film, Mia madre (dal 16 aprile al cinema, N.d.R.), sta per arrivare nelle sale italiane. Vi diciamo subito che non si è parlato assolutamente di questo film. Probabilmente Moretti aveva posto il veto. Il dialogo con il grande critico francese Jean Gili è durato piuttosto poco anche perché Moretti, subito dopo la proiezione delle ore 9 al Teatro Petruzzelli di Caro diario (1993), ha attaccato subito, in one man show con leggio davanti a una sala gremita, il suo celebre pezzo di lettura dei propri diari redatti nel momento delle faticosissime e angosciose riprese di Caro diario nel corso del 1992 e 1993.

Ma entriamo nel vivo. Ecco Moretti che arriva sul palco subito dopo che la Mannoia ha finito di cantare sui titoli di coda del suo fortunato Caro diario:

Volevo dire due parole sul film prima di iniziare a leggere i miei diari.

Io ho cominciato a girare Caro diario senza rendermi conto che stavo realizzando un altro film rispetto a quello che in realtà volevo fare. Stavo pensando a un altro film su uno psicanalista. Era metà agosto 1992 a Roma e mentre avevo a che fare con quella malattia incurabile… volevo anche fare un corto con me in vespa che andavo in giro per tutto il giorno con una troupe risicata: eravamo cinque persone. Ho girato quel corto perché sapevo che l’avrei fatto vedere nel mio cinema Nuovo Sacher di Roma prima di un film vero e proprio. Dopo aver visto come era venuto bene quel materiale, ho deciso di girare tutto un film così… con quella leggerezza e irresponsabilità. Ho abbandonato il film solido e strutturato che avevo in mente e ho deciso di fare quel film sulle isole e la mia malattia. Nell’estate successiva, domenica 15 agosto 1993, ho girato altre scene che poi non ho montato perché avevo preferito, per esempio nel momento dell’arrivo al monumento funebre di Pasolini all’Idroscalo di Ostia, le scene girate nell’estate del 1992. Nei diari che vi leggerò torna spesso Heimat 2 di Edgar Reitz. Era un film che in quel periodo mostravo al cinema Nuovo Sacher composto da 13 film di due ore l’uno. Nella primavera del 1993 ho mostrato quel film al pubblico del Sacher. Si creò una sorta di dipendenza nel pubblico. Heimat 2 sono tredici film ambientati a Monaco negli anni ’60. Lo consiglio a tutti gli appassionati di cinema, di musica, di arte, di letteratura… agli appassionati in generale (lo scrivente ricorda con emozione quando andava a vedere Heimat 2 all’arena Nuovo Sacher con quelle “strane” immagini in camera car di Moretti in vespa che il regista utilizzava come copertura dei suoi surreali e divertentissimi riassunti delle puntate precedenti in voice over; Heimat, di fatto, era una bellissima soap opera per intellettuali, N.d.R.).

Buio in sala. Moretti attacca. È un pezzo celebre in monologo che i “morettiani” conoscono bene. Si parte da domenica 21 febbraio 1993 e si finisce il 19 novembre dello stesso anno con Moretti che, sempre più titubante, sta per affrontare un ulteriore dibattito a Bologna sul suo film (Caro diario, N.d.R.) dopo l’uscita in sala del 12 novembre e parecchi mesi prima della consacrazione a Cannes quando Clint Eastwood, altrettanto titubante (leggenda vuole che fu chiave per Moretti l’interventismo di Pupi Avati in giuria; N.d.R.), gli consegnerà il premio per la Miglior Regia nell’anno in cui Pulp Fiction arriva come un uragano sulla Croisette e strappa di forza la Palma d’Oro. Era il maggio del 1994.

I diari di Moretti sono divertenti e di un umorismo disperato. Sono pieni di angoscia, dubbi sulle sue capacità di regista, paura di non aver più nulla da dire e soprattutto il terrore che l’idea di essere arrivato alle riprese di quello strano film in tre capitoli senza una sceneggiatura forte… possa essere un drammatico errore per cui il cineasta pagherà devastanti conseguenze. C’è il suo grande amore e ammirazione per Edgar Reitz (Heimat 2 sta andando benissimo al Nuovo Sacher), aneddoti divertenti durante le riprese nelle isole Eolie, il licenziamento di Mertens come musicista del film (lui e Barbagallo, come produttori, pagheranno i 50 mila dollari di cachet concordati col belga + una penale per poter rimpiazzare Mertens al volo con Nicola Piovani; N.d.R.).

Commovente il diario del 12 agosto:

Proiezione del film per qualche amico e intimo. Io mi metto ad aumentare il volume della musica nell’ultima scena (si riferisce al pezzo di Fiorella Mannoia che chiude il film, N.d.R.).
Alla fine della proiezione mia sorella stava piangendo, mio fratello Franco esce con gli occhi lucidi. Gli altri non sono usciti. Sono rimasti in sala. Ho pensato: lo fanno per permetterci di stare noi tre in intimità. Il film non è brutto… ma nemmeno bello. Amo il secondo montaggio, quando le scene se ne vanno via da sole. “C’è un grande cambiamento” mi dice qualcuno. Bah. A me non sembra.

Bellissimo il ricordo, nel 2 novembre, della visita di Moretti a Cinecittà, nel Teatro 5, per salutare la bara che contiene Federico Fellini (“Passando vicino alla bara mi è sembrata troppo piccola per Fellini”).

È il momento del dibattito con Jean Gili. Due sedie rosse sobrie, un tavolino al centro. Entrano Gili e due bottiglie d’acqua.

 

Moretti: Jean Gili è un critico francese con cui sono amico da circa 30 anni. Conosce molto meglio di me il mio cinema come certi spettatori appassionati che mi incontrano, fanno una battuta, mi strizzano l’occhio… e io non capisco niente. Hanno citato un mio film e io, purtroppo, non capisco a cosa si riferiscono.

Gili: Vogliamo partire ricordando cosa accadde nel dicembre 1976?

Moretti: Usciva in un cineclub romano -il Filmstudio- Io sono un autarchico. All’epoca ce n’erano tanti di cineclub a Roma. Doveva essere programmato lì per due giorni e poi invece è stato programmato per molti mesi. Un caso fortunato. Un grande successo all’interno del piccolo mondo dei cineclub.

Gili: Tu stesso lo proiettavi con un proiettore da salone…

Moretti: Ma parliamo di Caro diario!

Gili: Perché hai deciso di scegliere Caro diario con questa introduzione monologo in cui ricordi la lavorazione?

Moretti: Il film non l’ho scelto io. L’ha scelto il Festival di Bari. Per quanto riguarda la lettura dei miei diari, volevo far sentire al pubblico cosa c’è nella lavorazione di un film. E’ una lettura che ha senso fare di fronte a chi ha appena visto il film. Parlo di ambienti, scene, inquadrature, isole e se hai appena visto il film ti può far piacere ascoltare le impressioni di un regista e sul perché sta facendo il film. E’ importante che il pubblico sappia che alcune cose sono venute un po’ per caso come quando io ballo al tempo di Silvano Mangano nella scena di Anna (1951) di Alberto Lattuada. Era una riserva. Io avevo scelto un musicarello con Caterina Caselli dal titolo Perdono (1966) ma la Titanus non mi diede il permesso. Dovetti ripiegare su Anna di Lattuada con la Mangano. Mi faceva piacere ricordare l’aneddoto al pubblico. Per quanto riguarda la musica… ho parlato del coinvolgimento di Wim Mertens e del fatto che dopo non mi fossi trovato bene tanto da dover ripiegare all’improvviso su Nicola Piovani, il quale è tornato a lavorare con me e ha fatto musiche bellissime. Per il primo capitolo sapevo che avrei dovuto scegliere musiche di repertorio: da Jarrett a Leonard Cohen. Ho raccontato di come il film sia nato per caso e di come non mi fossi reso conto che stavo girando il mio nuovo film quando con 4 persone di troupe quella domenica d’estate a Roma incontrammo Jennifer Beals perché era lì con il suo compagno Alexander Rockwell il quale era nella capitale per presentare un suo film per la selezione di Venezia. Ero imbarazzatissimo quando la incontrai e le chiesi di fare un cammeo nel mio cortometraggio perché all’epoca pensavo che sarebbe stato ancora un corto. Mi ricordava i miei inizi in super 8 in cui nessuno al mondo si aspettava il nuovo film di Nanni Moretti. Caro diario è stato girato con incoscienza in senso positivo. Poi alla fine, alle volte… è il frutto anche di alcune casualità. Devo dire che il fatto di arrivare impreparato alle riprese… non mi è capitato sempre. Ci sono dei film che io assolutamente sentivo di dover girare con una sceneggiatura solida e strutturata. Penso a La messa è finita (1985) e all’ultimo film che ho fatto Habemus Papam (2011). Invece Palombella rossa (1989), Caro diario (1993) e Aprile (1998) li ho girati senza una sceneggiatura precisa ma per frammenti sperando di colmare quei buchi narrativi. E’ un modo di lavorare più interessante ma anche più faticoso. A differenza di altri film in cui avevo bisogno di una sicurezza.

Gili: Riguardavo gli appunti e mi sono imbattuto nel tuo ricordo di quando vai a Cinecittà sulla tomba di Federico Fellini. Ho trovato per puro caso un’intervista a Fellini uscita su Le Monde nel marzo 1993, e quindi pochi mesi rispetto alla sua morte, in cui lui dice: “Mi fa piacere sapere che esiste nel cinema italiano un giovane Savonarola rispetto a me che sono un vecchio papa corrotto”…

Moretti: Posso accogliere con serenità questa tua affermazione perché sono sicurissimo che Fellini non abbia mai visto un mio film. Era totale il disinteresse di Fellini per i film degli altri. Io non l’ho mai costretto a vedere un mio film. La sua dimensione di spettatore cinematografico era inesistente. Non gli interessavano. La sua dimensione di lettore di libri, invece, era enorme. Forse con quell’affermazione si riferiva a me come figura, come personaggio. Sono sicuro che non avesse mai visto un mio film.

Gili: Caro diario sembra girato in stato di grazia…

Moretti: Insomma…

Gili: In totale libertà e con una giustezza di approccio, con degli argomenti che sono il puro piacere di girare la città. Piovani ha scritto le musiche in soli 15 giorni. Anche lui era entrato in una libertà espressiva enorme…

Moretti: E’ come se una serie di casi e fortune si siano messi uno accanto all’altro. E piano piano queste tessere di un mosaico sono riuscite a comporre questo film. C’è un’altra cosa… avevo scritto quattro capitoli ma uno non c’entrava niente con gli altri tre. Il protagonista era Silvio Orlando e il titolo era “Il critico e il regista”. Orlando era un regista che dopo 30 anni di carriera senza alcun talento e attraversando tutti i generi cinematografici sbagliandoli sempre tutti… riusciva a conquistare, con costanza e blandizie, tutti i critici cinematografici tranne uno solo di provincia che continuava a parlare male di lui. E il regista ne era ossessionato. Ma alla fine non c’entrava nulla quel capitolo con gli altri tre e io non l’ho più girato. Questi tre film che ho citato insieme ovvero Caro diario,  Aprile e Palombella rossa non hanno avuto una separazione netta tra momento della scrittura, la preparazione, le riprese e il montaggio. Queste varie fasi si sono intrecciate un po’ tra di loro di continuo. Si può fare un film così eccitante, rischioso e faticoso solo se hai un rapporto non marziale o ufficiale con un produttore. O addirittura, come nel caso mio, quando hai una tua casa di produzione. Per quanto riguarda il capitolo della malattia… lì ho deciso di raccontare quella vicenda quando ho capito il tono con cui raccontarla ovvero con semplicità e ironia. Avevo un vecchio allenatore di pallanuoto che diceva sempre ai virtuosi con cui giocavo: “Nun te inventa’ niente!!!!”. Per il capitolo dei medici io non mi volevo inventare niente. Avevo una cartellina con appunti e senza inventarmi nulla ho scelto di inquadrare le prescrizioni e le ricette e ho tagliato la parte alta perché non sono un miserabile e non volevo mettere il nome e l’indirizzo del medico. Senza compiacimento, senza involontariamente fare una celebrazione della malattia e della sofferenza e senza sadismo nei confronti dello spettatore. Volevo raccontare tutto con molta secchezza. Naturalmente i tre capitoli non sono omogenei tra di loro. Non è un film compatto e non nasconde la sua disomogeneità. E’ un film che non nasconde ma esibisce la sua disomogeneità.

Gili: Dopo Caro diario, ho guardato Roma in modo un po’ diverso. Il capitolo “Isole” ci porta alla scoperta di un viaggio, un road movie, tra le isole Eolie in base alle loro caratteristiche. Il terzo capitolo è più privato. si conclude con: “Bisogna bere un bicchiere d’acqua”. C’è uno sguardo in macchina finale che c’era anche ne La messa è finita. Questo sguardo in macchina che significato ha?

Moretti: Che significato ha? Vabbè… ci penso (risate del pubblico, N.d.R.)… a proposito del capitolo “Isole”… questa rivalità nella realtà non è tanto quella degli abitanti o dei residenti delle isole quanto piuttosto è una rivalità tra i villeggianti. Chi sceglie Lipari non capisce Alicudi e viceversa. Chi sceglie Panarea non capisce chi sceglie Stromboli. Faccio fare al personaggio di Carpentieri un percorso che molte persone hanno fatto negli ’80 e ’90 ovvero il passaggio dal rifiuto totale della televisione a un’accettazione entusiasta della stessa. Questo percorso di anni… a Gerardo (il personaggio interpretato da Renato Carpentieri nell’episodio Isole, N.d.R.) io lo faccio fare in pochi giorni…

Gili: Ci hai pensato allo sguardo in macchina del finale?

Moretti: Gerardo scappa da Alicudi. C’era un finale in cui Gerardo approdava a Vulcano perché aveva scoperto che lì c’era la casa di Mike Bongiorno e lui va a Vulcano sperando di incontrare Mike.

Parte il finale alternativo di Isole con voice over di Moretti su Carpentieri che entra in una pozza dell’isola di Vulcano ricoperto di fango sapendo che tra i natanti c’è Mike Bongiorno. Si avvicina nuotando a un uomo ripreso di spalle e gli salta addosso urlando: “Mike tu sei l’Italia! Tu sei il mio maestro!”.

Si torna al dibattito.

Moretti: Perché guardo in macchina? Un film non è un cruciverba e non c’è la soluzione e non deve portarla il regista. Il cinema è un mezzo espressivo che si presta a più interpretazioni. Vi sarà capitato a tutti di rivedere un film, anche a breve distanza, e il film vi sembra completamente diverso. Mi veniva da guardare in macchina… c’è stato un incidente in cui si sono sfocate tutte le inquadrature. Tutti i ciak vennero sfocati e dopo mesi abbiamo rigirato il finale con lo sguardo in macchina…

Gili: Ne La messa è finita quando tu guardi in camera, hai questo strano sorriso del Buddha e sembra la felicità assoluta…

Moretti: Adesso non so. Il finale de La messa è finita… è sia una sconfitta che una vittoria. Don Giulio parte per la Terra del Fuoco in Patagonia però non è riuscito lì, nella sua città e nella sua parrocchia… non è riuscito a fare tanto per gli altri. Quel finale è un grande passo avanti e un passo indietro contemporaneamente.

Gili: Lo sguardo è un modo di lasciare aperto il finale?

Moretti: Però con un margine forte. L’ultima immagine di un film è una cosa molto importante per il pubblico. E’ una cosa che porta con sé quell’ultimo fotogramma…

Gili: Dopo tre film senza sceneggiatura… arriviamo a La stanza del figlio (2001) che è il contrario. Dalla libertà alla struttura…

Moretti: Ma… semplicemente con questi tre film Palombella rossa, Caro diario e Aprile ho volto raccontare delle storie in modo più libero. Spesso le mie esperienze di spettatore, il mio, tra virgolette, lavoro di spettatore ha influenzato il mio lavoro di regista. Verso la fine degli anni ’80, dopo un periodo in cui la sceneggiatura era stata molto sottovaluta e messa da parte, ci fu un ritorno giusto dell’importanza della sceneggiatura. Un ritorno, però, anche di accademismo. Una voglia di fare i compitini ben fatti. Era un ritorno di importanza della sceneggiatura ma c’era un ritorno di accademismo, di regole da osservare in modo pignolo. Allora per reazione io con Palombella rossa (1989) ho voluto raccontare in maniera più libera e meno obbediente a regole più vecchiotte. Racconto con quel film la crisi di un dirigente del Pci. Avrei potuto raccontare la crisi familiare che va di pari passo con la crisi politica, girare dei dialoghi come: “Cara… stiamo insieme per abitudine”, oppure inquadrare la macchina, un maggiolino volkswagen, che porta il nostro dirigente fuori Roma verso dei compagni tanto onesti e appassionati ma anche ottusi. Erano film che erano già stati fatti, e bene, altre volte nel passato. Allora cosa ho fatto ? Ho preso una piscina, una partita di pallanuoto e in modo non realistico ho ambientato la storia durante una partita di pallanuoto che sembra non finire mai. Come spettatore vedevo che c’era un ritorno di regole osservate senza libertà e allora ho voluto prendermi la libertà io di raccontare lo smarrimento e la perdita di memoria della sinistra italiana ma senza la volkswagen maggiolino. Una partita di pallanuoto con un’amnesia. Avevo individuato nella perdita di memoria un nodo del nostro paese. Della sinistra italiana. Palombella rossa è un film di invenzione. Poco dopo girai La cosa (1990) che invece è un film documentario dentro e durante la crisi del Pci. La cosa è un film documentario di un’oretta sulla fine del Pci. Dopo la caduta del muro di Berlino, dopo un paio di giorni, il segretario del Pci Achille Occhetto propose di cambiare natura e nome al partito. Una decisione che prese in solitudine. Io cominciai ad andare nelle sezioni del Pci a filmare i dibattiti. Anche lì però… io non volevo dimostrare chissà cosa. Io ho cominciato a girare per curiosità mia personale. Dubito un po’ di chi ha una tesi e deve dimostrare con il documentario la sua stessa tesi. Ero curioso di capire e allora sono andato a girare in totale semplicità. Ricordatevi il mio allenatore che urlava: “Nun te inventa’ niente!”. Volevo semplicemente inquadrare facce di persone che parlavano. Senza entrare in campo con il mio corpo (Moretti si vede fuggevolmente solo verso il finale, N.d.R.), con le mie domande, con la mia presenza. Volevo filmare gli iscritti del partito con la loro paura, angoscia, panico speranza, gioia e… sono passati molti anni… era un’autocoscienza in pubblico a cui era interessata l’intera società italiana. Non erano interessati solamente gli iscritti Pci e gli elettori, che comunque erano tanti. A quel dibattito guardava con attenzione e rispetto l’intera società italiana dell’epoca

Gili: Andrebbe rivisto…

Moretti: Si può anche sopravvivere senza…

Gili: Torniamo ai film… abbiamo detto che dopo Aprile i successivi sono con una sceneggiatura forte…

Moretti: Quando dobbiamo lasciare la sala fateci un fischio…

Gili: Ancora 15 minuti…

Moretti: Mah… ripeto… prima dicevo come sarebbe potuto essere il racconto di Palombella rossa se fosse stato scritto in modo più ordinato. Ma visto che non volevo fare lo stesso film dopo due esperienze con Sandro Petraglia… Palombella rossa sapevo che dovevo scriverlo da solo. Perché ci sono io, c’è mia figlia, la mamma… non si sa. Uno sceneggiatore mi avrebbe detto: “Perché il dirigente Pci ha una figlia ma tu non vuoi parlare allo spettatore della madre?”. Ma a me non interessava. Ero consapevole che avrei dovuto raccontare quel film da solo. Poi dopo no… sono di nuovo approdato a una sceneggiatura scritta con altre persone. E’ una traversata scrivere una sceneggiatura e da La stanza del figlio in poi ho sempre scritto in tre: io e altri due. E ora mi sono stabilizzato su questa formula.

Gili: E’ diverso scrivere da solo?

Moretti: E’ più piacevole non scrivere da solo per me. E’ il modo in cui penso e vivo i film. Si fa una traversata. Ci sono tanti momenti dispersivi di noia, di chiacchiere che non c’entrano niente con la sceneggiatura e poi si arriva a un’idea e a un momento piacevole. Negli anni forse il momento della scrittura è quello più difficile ma non faticoso. Quello più faticoso è per me sempre quello delle riprese. Arrivo con sollievo al montaggio perché si lavora con una persona sola. Non c’è l’ansia di rispettare il programma e girare quelle scene che devi girare e poi soprattutto lavori con una persona e non hai decine di persone che aspettano che ti venga un’idea quando non ce l’hai. Il periodo della scrittura è diventato più difficile con gli anni ma anche più piacevole.

Gili: Una domanda sul fare il regista. Chi fa lo scrittore ogni mattina può scrivere, il pittore può dipingere, il musicista può comporre. Chi fa il regista… no. C’è l’idea, poi la sceneggiatura, poi le riprese, il montaggio. C’è sempre un momento per te in cui passano anche cinque anni tra un film e l’altro. Il tuo modo di affrontare il tuo ozio ti porta a prendere altri impegni? Come con il cinema Sacher o con la rassegna Bimbi belli?

Moretti: (rivolto al pubblico, N.d.R.) Bimbi belli è una rassegna di esordienti che ospito al cinema Sacher…

Gili: Le fai queste cose per riempire questo spazio in attesa di un altro film? Per evitare un vuoto interiore tremendo?

Moretti: Devo dire che… oltre al regista io così, in passato e in parte nel presente, ho incarnato altre figure: produttore, distributore, esercente, direttore di festival come a Torino per 2 anni. Non ho mai fatto tutto questo per dovere ma per piacere. Ho prodotto i primi film di Mazzacurati e Luchetti. Ho attraversato vari mestieri per piacere e anche perché mi sembrava un modo di completare il mio lavoro di regista. Mi sembrava che fosse più completo, così. Tu hai citato i tanti anni che passano tra un film e l’altro però… nel frattempo faccio anche altro… come l’attore ad esempio…

Gili: Non è un modo specifico per combattere l’angoscia?

Moretti: L’angoscia di cosa?

Gili: Della non attività?

Moretti: E’ un modo di ricaricarti. Penso che per molti registi sia così. C’è anche chi per sua fortuna ha un rapporto più leggero con il mestiere di regista. Per molti registi fare un film è un grande coinvolgimento e quando è finito si è scarichi e lentamente c’è bisogno di un nuovo sentimento nei confronti degli altri, del mondo, di se stesso e tutte queste cose poi diventano degli appunti, poi dei soggetti e poi viene fissato tutto in una sceneggiatura. Per alcuni registi questo non è lavoro automatico. Per alcuni altri sì. Per me e per altri deve passare un po’ di tempo tra un film e l’altro.

Gili: Con La stanza del figlio racconti una storia privata, poi con Il caimano metti la tua esperienza per un soggetto più importante…

Moretti: Detto così è un po’ riduttivo…

Gili: Ti puoi difendere…

Moretti: Ma non c’è bisogno che io mi difenda. Il caimano è una storia d’amore, un film sul cinema di serie b…

Gili: Non z?

Moretti: Guarda che tutto viene rivalutato. E’ anche la storia di un film che si deve fare. Ci sono varie storie, vari temi e vari sentimenti che si intrecciano dentro Il caimano…

Gili: Da dove ti è venuta questa idea di un papa che si tira indietro? Rimane un mistero…

Moretti: E lasciamolo…

Gili: Lasciamolo. Questi incontri devono proteggere il mistero del regista. Grazie!

Standing ovation al Petruzzelli.

Entra Felice Laudadio con Klaus Eder e Alin Tasciyan per consegnare il premio Fipresci a Nanni Moretti nell’anniversario del novantesimo anno di vita della Federazione internazionale della stampa cinematografica.

Felice Laudadio annuncia anche il Premio Fellini per l’eccellenza artistica a Nanni Moretti aggiungendo del dispiacere riguardo il fatto di non aver potuto far entrare circa 500 persone rimaste chiuse fuori dal Petruzzell in occasione della masterclass di Nanni Moretti. L’ideatore e Direttore artistico del Bif&st porta a Moretti anche i saluti di Edgar Reitz dopo che il regista tedesco, presente a Bari nei giorni precedenti l’arrivo di Moretti, ha ascoltato a distanza le parole di stima ed affetto da parte del collega italiano.

Moretti non ha voluto domande dal pubblico ma si ferma a lungo per firmare autografi. C’è così tanta gente alla ricerca di una sua firma che il cineasta romano si siede addirittura sulle scale del proscenio del Petruzzelli per prendersela comoda ed esaudire tutti i desideri dei tantissimi fan.

I giornalisti, invece, sono arrabbiati. Le masterclass del Bif&st lasciano di solito lo spazio a domande del pubblico che per questo motivo viene invaso da infiltrati giornalisti i quali provano ad aggiungere così qualcosa di più personale al loro reportage dell’incontro.
Sono le regole del gioco ed è anche un gioco delle parti tra noi e loro (loro nel senso di artisti e organizzatori del Festival).
Ma in questo caso… nessuna domanda. Mugugni e qualcuno dei colleghi che dice ad alta voce: “Sorrentino l’anno scorso ha risposto a qualche domanda!”.
Pazienza.
Questo signore è Nanni Moretti.
Ed evidentemente, voleva blindarsi e impedire qualsiasi possibile accenno al suo nuovo film in arrivo.