“Rara avis in terris nigroque simillima cygno”
Giovenale

Secondo alcune speculazioni filosofiche (e più recentemente anche economico – politiche) ciò che diamo normalmente per scontato, scontato non è quasi mai. La frase “tutti i cigni sono bianchi”, per esempio, è stata vera per almeno quattro millenni, finché, intorno agli anni zero del novecento, un gruppo di esploratori britannici ha scoperto il Chenopis Atrata, un pennuto della famiglia dei cigni, totalmente nero che vive nei fiumi australiani e neozelandesi. Nei giochi funziona più o meno allo stesso modo; in mezzo allo strapotere economico dei vari Call of Duty, Fifa e GTA si nascondono piccole/grandi sorprese, capaci da sole di farci riscoprire il lato più nascosto del gaming, quello in cui l’interattività diventa un modo ulteriore per sperimentare nuove forme di comunicazione emotiva.

Vincent Brooks è un ragazzo abbastanza normale, ha un lavoro (per quanto non esattamente gratificante), un monolocale ordinato in maniera “creativa” e una fidanzata storica di nome Katherine precisa e pragmatica, capace di tenerlo sempre in riga. Alla soglia dei trent’anni, però, la fanciulla comincia a mandare chiari segnali: è ora di mettere la testa apposto e sposarsi, i tempi sono maturi e, come se non bastasse, tutti gli amici di Vincent si stanno accasando. Peccato però che il nostro protagonista non ne voglia proprio sapere, cominciando addirittura ad avere strani incubi in cui per salvarsi la vita deve arrampicarsi su dei blocchi di pietra, contornati da immagini disturbanti di pecore che vanno al macello.
Meno male che ci sono gli amici di sempre, quelli con cui condividere una bevuta al bar e qualche parola in libertà sulle donne, il futuro e l’amicizia.

Peccato però che nei bar, una bevuta di troppo a volte è sufficiente a far cedere anche il più cauto degli uomini. Soprattutto quando ci si mette di mezzo una bionda vestita con un microabito bianco e un viso da bambina.

Catherine è un sogno o realtà? Una fantasia malata o una ragazza vera e reale con cui costruire un rapporto se non migliore, quantomeno diverso?

Mentre i nostri incubi continuano, lo scontro fra il buon senso, Katherine e la fantasia, Catherine, diventerà sempre più stringente, avvolgendoci in un abbraccio dolce come quello di una donna ma terribile come catene di ferro.

 

Dal punto di vista ludico, Catherine si divide in due macrosezioni principali, corrispondenti (a grandi linee) al mondo reale e a quello onirico. Durante il giorno controlleremo Vincent nelle sue attività quotidiane, soprattutto quelle legate alle uscite con gli amici presso il bar straight sheep. Il locale funge sostanzialmente da hub del gioco, qui potremo parlare con gli altri avventori, discutere con i nostri amici e ricevere sms sul cellulare. Questa componente quasi da ren’ai (i simulatori d’appuntamento giapponesi), inizialmente sembra solo poco più che un intermezzo fra un incubo e l’altro in realtà, tutte le piccole scelte che faremo nei dialoghi, ogni linea di testo che scegliamo di pronunciare e ogni SMS che inviamo contribuiscono in maniera sostanziale all’evoluzione della trama, permettendoci in primis di capire meglio la vicenda e secondariamente definiranno (una volta messe insieme tutte le tessere del puzzle) il finale del gioco. Senza voler svelare nulla, vi diciamo solo che Catherine mette a disposizione del giocatore otto conclusioni diverse, ognuna con le sua specifiche conseguenze.
Quando passiamo al mondo “dei sogni”, invece, il gameplay cambia completamente, diventando uno strano misto fra un rompicapo e un action. Gli incubi che attraverseremo, infatti, sono strutturati come una specie di cattedrale mostruosa, da cui dobbiamo tentare di fuggire, raggiungendone la cima. Ogni livello è, sostanzialmente, un puzzle ambientale in cui, nei panni di Vincent, dovremo arrampicarci su un muro composto da cubi che potremo spostare (o a volte addirittura distruggere) in modo tale da costruire un sentiero verso la salvezza. Facile da dire, ma molto meno da fare. Il muro, oltre a perdere pezzi man mano che il tempo passa è una struttura complessissima fatta di trappole, passaggi nascosti e altre amenità. Come se non bastasse, lo spostamento dei blocchi può avvenire solo seguendo certe regole, ovvero muovendoli di una posizione alla volta e solo se hanno almeno un bordo di contatto con il cubo adiacente. La nostra mobilità è abbastanza ridotta, infatti, a fronte di una buona velocità nella corsa, non potremo mai saltare da un blocco all’altro n’é arrampicarci oltre due cubi consecutivi. Inutile dire che le prodezze alla Ezio Auditore sono da escludersi immediatamente. Catherine richiede un approccio furbo ma ragionato, in cui logica e azione si uniscono senza mai perdere la calma. Una mossa di troppo può trasformare un passaggio relativamente semplice in un’accozzaglia di cubi e trappole senza via d’uscita, costringendoci alla resa e alla morte. Superati i primi livelli, in cui veniamo introdotti ai vari tipi di cubi e ai (pochi) strumenti che potremo utilizzare, il livello di difficoltà del gioco fa da subito un deciso balzo in avanti e, se a “facile” il gameplay risulta ancora abbastanza approcciabile, già a “medio” (per non parlare della modalità “difficile”) la sfida che Catherine ci propone è decisamente impegnativa e, a tratti, davvero frustrante. Per quanto si possa apprezzare questa vena a tratti sadica degli sviluppatori, purtroppo il gioco soffre di una gestione dei comandi non eccelsa, per cui non sono rari i casi in cui una mossa sbagliata (Vincent che si volta a destra invece che a sinistra, oppure una presa mancata) porta alla morte istantanea nonostante il giocatore volesse in realtà fare tutt’altro. Un maggiore beta testing non avrebbe guastato tuttavia, in generale, il nostro consiglio è di giocare con il D – Pad anziché con l’analogico, in modo tale da poter sempre dare input precisi ed evitare confusione soprattutto per quanto riguarda i movimenti verso l’alto e il basso.

Presi separatamente entrambi gli elementi su cui si basa Catherine sembrano essere piuttosto deboli: alla fine il gioco si riduce a un simulatore d’appuntamenti con una componente puzzle. Not a big deal, direbbero gli americani.

 

 

Ma, per riprendere la metafora iniziale, è qui che entra in gioco il cigno nero.

Catherine eccelle nella sua capacità di inserire un gameplay tutto sommato riuscito, in una vicenda angosciosa e profonda che avrebbe potuto essere raccontanta da un anime classico. Qui entra in gioco il genio di Atlus che, con perizia tecnica sopraffina (le cut scene di Catherine non hanno nulla da invidiare ai prodotti dello studio Gainax o di Pierrot), ha costruito intorno al gameplay una cornice di emozioni, personaggi e ambienti indimenticabile, che, da sola, vale l’intero prezzo del gioco. Certo, Catherine rimane un gioco non per tutti, che non vede nelle masse la sua destinazione finale. Probabilmente in molti lo snobberanno, considerandolo l’ennesimo giocattolo da giapponofili, mentre altri saranno spaventati dall’elevata difficoltà del gioco o dalla sua struttura così lontana dagli stereotipi occidentali.
Catherine si rivolge ai giocatori veri, quelli che dieci anni fa morivano dietro all’import orientale e oggi guardano ancora al Paese del Sol Levante come una miniera piena di prodotti particolari e forieri di nuove idee.

Il gioco di Atlus non è perfetto, come tutte le pietre preziose ha qualche difetto più o meno nascosto, tuttavia negli ultimi anni raramente abbiamo visto titoli cosi impegnati nel tentativo di dare qualcosa in più al giocatore, così desiderosi di esplorare territori nuovi, così freschi.

Non scegliete fra Catherine e Katherine, lasciate che siano a loro a scegliere voi. Non ve ne pentirete.

[8.0]