Ottanta e ottantadue anni.

Paolo e Vittorio Taviani non possono certamente essere presi come il termometro di un giovane cinema italiano finalmente vincente all’estero, ma l’Orso d’oro per il migliore film ricevuto al Festival di Berlino premia comunque una voglia di sperimentare e un’umanità di contenuti che sono proprie della nostra cultura. Non è da tutti a quell’età pianificare un film all’interno di un carcere di massima sicurezza come Rebibbia, prenderne alcuni suoi detenuti e renderli protagonisti di una storia tanto classica (il Giulio Cesare di William Shakespeare) quanto moderna nella sua rappresentazione, dove la prigione diventa anfiteatro, una cella il set delle prove e ogni parola, dialogo o riflessione del copione il momento principale delle vite quotidiane di un gruppo di persone in cui l’essere qualcun altro, “interpretare” un personaggio, è l’unico modo di vivere da uomini liberi.

I Taviani non giudicano i membri del proprio cast, non li assolvono dai loro peccati (a inizio film una didascalia sul viso di ogni detenuto indica la ragione e il tempo della condanna da scontare), ma gli danno quantomeno la possibilità di riflettere sulle proprie responsabilità, sugli ideali che dovrebbero essere fari nelle vite di ognuno di noi e al senso di sacrificio. Sono questi infatti i temi portanti del testo di Shakespeare, un’opera che anche nella sua più ridotta delle trasposizioni prende cervello e stomaco. I due fratelli di San Miniato non si accontentano di seguire la sceneggiatura, ma scelgono di rendere epico il tutto con tagli di montaggio improvvisi, primi piani carichi di tensione ed un bianco e nero che suggerisce quell’idea di immutabilità della storia che è tanto quella dell’Antica Roma che dei carcerati chiamati a rievocarla per l’occasione.

In pochi si aspettavano un Orso d’oro ai Taviani, ma non per la qualità del film, sui cui concordavano quasi tutti (sono stati tanti gli applausi in sala dopo la proiezione per la stampa al Berlinal Palast), ma per quel suo essere catalogabile come “docu-fiction”, genere normalmente disdegnato dai festival più duri e puri. Lo Spiegel ha parlato dell’assegnazione dell’Orso d’oro a Cesare deve morire come di “una scelta conservativa in una competizione piena di film giovani, impegnati e politici”. Non potrebbe essere più fuori strada. Ben venga il cinema dei Taviani, potente tanto nelle immagini che nei contenuti. Tutto il resto sono speculazioni che sanno più da tifo da stadio che da giudizi veramente critici.

Piccola nota a margine: era di Nanni Moretti l’ultimo film italiano vincitore del primo premio in un festival (La stanza del figlio a Cannes 2001), era prodotto e intepretato da lui l’ultimo film italiano passato in concorso alla Berlinale (Caos Calmo nel 2009) ed è ancora prodotto e distribuito (dal 2 Marzo) dalla sua Sacher il Cesare deve morire dei fratelli Taviani. Non c’è dubbio che sia lui il “nostro” uomo dei festival.