Uno dei primi trucchi, espedienti che si devono imparare facendo il mestiere d'imbrattacarte – internettiano o meno – è che l'attenzione del lettore va catturata subito, fin dalle primissime parole che vengono vergate con la qwerty sul .doc.

Banale a dirsi, un po' meno a farsi.

Scrivere un articolo, nonostante il debito distacco verso l'oggetto d'attenzione del medesimo che talvolta la professione richiede, resta pur sempre un atto con implicazioni emotive potenzialmente profonde. Specie se, come nel mio caso, ti ritrovi a percepire uno stipendio per comunicare sensazioni, emozioni, impressioni su un ambito amato in maniera così viscerale come il cinema. Trovare “l'attacco” di cui sopra potrebbe diventare abbastanza arduo. Il barcamenarsi fra “freddezza” e “genuina passione” è un percorso intricato, reso sicuramente meno ostico dall'esperienza. Ma le insidie restano.

Il 6 agosto 2013 è uno di quei momenti in cui tutte le regole, tutti i buoni propositi possono essere cordialmente mandati a quel paese, per lo meno dal sottoscritto.

"Oggi di quattro anni fa" moriva a New York, stroncato a soli 59 anni da un attacco cardiaco, il regista, sceneggiatore e produttore John Hughes.

Come molto spesso accade nella vita di tutti i giorni, ti accorgi dell'importanza di qualcuno solo nel momento in cui sai che gli eventi hanno, in un modo o nell'altro, contribuito a separarti definitivamente da questa.

Per la seconda volta: banale da dire, complicato averci a che fare. Una frase che sarebbe tornata utile come attacco del pezzo che sto scrivendo, ma la mia materia grigia ha scelto di farmela piazzare a discorso già cominciato, per cui sarà il caso di rassegnarsi.

John Hughes, dicevo.

Se dovessi citare i nomi dei registi della mia infanzia, di quei filmmaker che amo ancora oggi e che mi hanno accompagnato in un percorso di crescita personale, penserei automaticamente, epidermicamente a gente come Steven Spielberg, John Landis, Joe Dante, Mel Brooks, George Lucas, Tim Burton, Richard Donner. Eppure, quel disgraziato 6 agosto di 4 anni fa, ho avuto un'illuminazione degna di Epimeteo, il “fratello rallentato” di Prometeo, e ho compreso un concetto nascosto efficacemente dalla sua stessa evidenza: John Hughes è stato il mio più grande, importante padre cinematografico.

Che si tratti di pellicole da lui scritte e dirette o solo sceneggiate, i film confezionati in quel magico lasso di tempo che va dal 1983 al 1993 – due lustri in cui si concentra il suo “periodo d'oro” – hanno segnato indelebilmente la mia persona.

Basterebbe citare la prima “cotta” filmica della mia esistenza, indissolubilmente collegata a due lungometraggi di Hughes. Non ricordo esattamente quanti anni avessi ai tempi della visione di Sixteen Candles o Breakfast Club, ma non dimenticherò mai il momento in cui ho visto comparire sullo schermo, nel caotico inizio giornata della famiglia Baker, Molly Ringwald e i suoi capelli rossi. Amore a prima vista. Mi domando se il mio spontaneo “perdere la trebisonda” di fronte ad attrici dalla fulva chioma dipenda da questo imprinting risalente agli anni ottanta.

Innamoramenti a parte, Hughes, che fondamentalmente era un geek occhialuto come me e tante altre persone, è sempre riuscito a toccare in modo intimo, eppure mai invasivo o fastidioso, le corde del mio animo.

L'ha fatto con storie in cui tutti si dimenticavano il compleanno di una ragazza arrivata alla fatidica età di 16 anni, in cui un preside rompipalle costringeva un gruppo di ragazzi a trascorrere un sabato di “detenzione scolastica”, in cui un adolescente adorabilmente “paravento” decide di fingersi malato e di saltare la scuola per godersi appieno una splendida giornata di primavera, in cui un uomo d'affari di Chicago con un palo ben piantato nel deretano si ritrova a dover condividere la strada verso casa con un fastidioso compagno di viaggio.

Una presenza costante dei primi 15 anni della mia vita, meno “ingombrante” di quella di alcuni suoi illustri colleghi come quelli citati prima. Eppure John Hughes era sempre lì, pronto a divertirmi, a farmi riflettere, a commuovermi, a farmi innamorare, a far sentire la propria eco già a partire da In Viaggio con Pippo fino ad arrivare all'agrodolce malinconia dei film di Judd Apatow o dei sottovalutatissimi Easy Girl, Nick e Norah Infinite Playlist e Bandslam.

Perché le qualità più grandi di John Hughes sono sempre state la sua sincerità, la sua schiettezza, la sua capacità di raccontare la vita e le sue mille sfaccettature, belle o brutte che fossero, senza ipocrisia e peli sulla lingua. E l'onestà di un autore nei confronti del pubblico è una qualità che, magari sul lungo periodo, tende sempre a essere ripagata. Instaurando una vera e propria connessione emotiva, un'eredità capace di mettere alle corde anche la terribile capacità di erosione che il tempo esercita su ogni cosa. La profondità dei suoi personaggi, dei suoi adolescenti alle prese con la difficoltà del crescere – circoscritta magari a degli intervalli cronologici ben delimitati dalla narrazione – ha oggi, in pieno 2013, la stessa carica posseduta 25 anni fa. Per non parlare del fatto che la scena di Un Biglietto per Due in cui Steve Martin e John Candy vanno contromano in autostrada resta ancora una delle sequenze comiche più riuscite di sempre. Ogni volta che riguardo il film e vedo il paffuto Candy con le fattezze di un diavolo con addosso un costume da quattro soldi che pare comprato in uno spccio d'infima categoria ho le lacrime dal ridere.

Ed è proprio per questo che, almeno nel mio umile caso, non dimenticherò mai John Hughes e l'importanza che le sue opere hanno avuto e hanno tutt'ora. E' stato un padre putativo che non ho mai avuto il privilegio di conoscere direttamente, ma che grazie ai suoi film sarà sempre con me.

Slow change may pull us apart 
When the light gets into your heart, baby 

Don't You Forget About Me 
Don't Don't Don't Don't 
Don't You Forget About Me 

Cantavano i Simple Minds nella colonna sonora di Breakfast Club.

Adesso però vi saluto. Fuori splende il sole, fa caldo e ho voglia di andare al mare. Penso proprio che telefonerò ad Andrea Francesco e fingerò di avere la febbre.

“La vita scappa via in fretta. Se uno non si ferma e non si guarda attorno, rischia di sprecarla”. Me lo ha insegnato il mio amico Ferris Bueller.