Articolo a cura di Claudio Cicciarelli e Simone Novarese – video: Mirko d'Alessio

"Amazing". 
Occhi strabuzzati ed esclamazioni di meraviglia. Sono queste le reazioni del cast dell'Uomo d'Acciaio all'entrata nel parterre. 
Il teatro antico che ospita l'evento accoglie i visitatori stranieri con tutto il peso dei suoi 2300 anni di storia. Un carico non indifferente, che fa accusare senza dubbio il colpo ad attori e registi d'oltreoceano. 
Tradizione e innovazione si scontrano in modo inaspettato al Film Fest di Taormina. 
In uno scenario come quello nostrano, dove l'utilità dei festival viene sempre più messa in discussione, il piccolo comune messinese tenta di infondere nuova vita al grande show della promozione cinematografica.


La serata d'apertura, cui abbiamo partecipato, vede l'assegnazione del Taormina Award a Russel Crowe e la presentazione in anteprima dell'ultima fatica di Zack Snyder. 

Prima di passare al doveroso commento cinematografico, permetteteci una veloce digressione sulla conduzione del festival, affidata all' ancora "esordiente" Mario Sesti. 
Se lo scorso anno la gigantesca macchina organizzativa sembrava ancora bisognosa di una grossa messa a punto, in questa nuova edizione l'apparato ci è sembrato preciso e puntuale come un orologio svizzero. 
Il discorso di Crowe alla platea, la sfilata degli attori e il commento del regista si sono svolti in scioltezza e serenità, con grande partecipazione del pubblico e senza quel fisiologico ritardo a cui sembra assistere in molte manifestazioni di una certa importanza. 
Si avverte il forte respiro internazionale dell'evento, e durante la proiezione non manca quello speciale trasporto che solo gli spettatori italiani sanno dare. La sensazione è quella di una meravigliosa cartolina, incartata e consegnata agli osservatori esteri.

 

Tornando all'evento, le luci si abbassano e il perfetto impianto audiovisivo del teatro si avvia…

Snyder e Goyer plasmano l'incarnazione dell'ultimo figlio di Krypton rigettando completamente l'iconografia del passato, ne scolpiscono l'invincibilità attraverso un calvario di sofferenze psicologiche, morali e fisiche, ne sanciscono l'indistruttibilità dell'animo e del corpo in un percorso di rinascita ed accettazione imperfetto ma solenne, sopra le righe ma emozionante, poco stratificato ma epico. Zack Snyder conferma ancora una volta con L'Uomo d'Acciaio il proprio cinema per immagini, limandone i difetti, probabilmente sotto il vigile sguardo produttivo di Nolan, ottenendo quella coesione interna che mancava a Sucker Punch e superando quelle cadute di stile di cui difettava Watchmen.

Cinema pulsante, fisico, estremamente carico quello di Snyder, che in questo caso senza mostrare una goccia di sangue pervade i propri protagonisti di una moralità tutta loro, di principi che sono pilastri d'acciaio, di sensazioni in grado di reggere un'intera esistenza. È un cinema a una sola dimensione quello di Snyder, ma quell'unica dimensione è imponente, granitica, assolutamente coerente con se stessa, e capace in definitiva di trascendere i limiti, pure non indifferenti, della propria sceneggiatura, per raccogliere il carico emotivo di una serie di momenti topici dell'esistenza di Clark Kent, concentrarli in un gesto solenne che funge da tramite fra la prima e la seconda parte del film e farne la spinta propulsiva verso la costruzione del protagonista.

Film di origini, film sulle origini – che in fondo rappresentano il motore stesso della narrazione – che consapevole di sé e della preparazione degli spettatori sceglie di non seguire, nella prima parte, una narrazione lineare ma di condensare in alcuni flashback ben mirati (e che rappresentano a livello di scrittura i momenti più riusciti e interessanti del film) le sensazioni di cui vuole parlare. Perché per comprendere e apprezzare al meglio L'Uomo d'Acciaio è necessaria una certa capacità di abbandono alle sensazioni, a quel sentire e percepire che nel film pure è una delle tematiche (oltre che legata ad una delle idee migliori presentate) e che in questo senso si coniuga alla perfezione con la regia di Snyder, dalle esplosioni di azione nelle fasi più concitate alla camera a mano piantata sul volto di marmo di Henry Cavill nei momenti più intimi. Valore aggiunto la potente colonna sonora di Zimmer, coerente con il percorso del compositore e con l'anima del film: elemento portante e imprescindibile dalla carica visiva di ogni scena degna di nota.

Nella sua frattura con le precedenti incarnazioni di Kal-El (Richard Donner è davvero lontano, nonostante alcuni riferimenti) e nella sua continua ricerca di un'escalation emotiva da far esplodere in un devastante finale che assorbe la lunga terza parte del film, L'Uomo d'Acciaio rivela però tutti i suoi limiti. Come il proprio protagonista viaggiando costantemente sospeso al di sopra della sfera umana, indebolendosi a contatto con l'atmosfera Kryptoniana, il film nelle sequenze finali risolve tutte le proprie tensioni in uno scontro che scioglie i vincoli narrativi ma non quelli tematici disseminati nella prima parte. A farne le spese anche caratterizzazioni poco approfondite (Lois Lane su tutte), dialoghi non memorabili e alcune prove attoriali spesso non all'altezza, tutte sacrificate all'euforia di un film che si alimenta di se stesso fino all'esasperazione ma che, sotto i punti di vista citati, non risulta vincente. Idem per alcuni forzati momenti di raccordo nella parte centrale.

Lontano dai suoi predecessori, dallo pseudorealismo nolaniano, con cui di fatto condivide esclusivamente la quasi totale mancanza di ironia, ma al tempo stesso nettamente distaccato dal tono leggero dei film Marvel Studios, L'Uomo d'Acciaio si colloca come un esperimento unico in questo momento fortunato nella storia del cinefumetto. Rischia, divide, emoziona, reinventa, ma non delude. E non è un caso se in questa recensione non abbiamo mai utilizzato un certo nome.