Scrittori che passano dietro la macchina da presa? Capita spesso. L'italia, da questo punto di vista, vanta una gloriosa tradizione, che annovera nell'elenco nomi come Pier Paolo Pasolini o Mario Soldati. Portare le proprie opere sullo schermo è un'esperienza certo gratificante, ma spesso insidiosa per un autore. Perché, verità banale ma inattaccabile, essere un bravo narratore sulla carta non implica assolutamente essere altrettanto efficace sul grande e piccolo schermo.

Nel caso di Carlo Lucarelli, il legame con la settima arte è di lunga data: numerose sono state le sceneggiature da lui realizzate sia per film che per fiction televisive. Al Festival del Cinema di Roma, però, si presenta per la prima volta nei panni di regista. Il film è L'isola dell'angelo caduto, tratto dall'omonimo romanzo da lui scritto nel '99. Un thriller bizzarro, con tinte volutamente surreali, ambientato in una misteriosa isola immaginaria nel cupo 1925 fascista, all'indomani del Delitto Matteotti. La morte, in circostanze oscure, di una camicia nera, pone un giovane commissario, interpretato nel film da Giampaolo Morelli, di fronte ad un bivio morale: proseguire le indagini in nome della verità, a rischio della propria sicurezza personale, o farsi banalmente gli affari propri in nome della tranquillità sua e della giovane moglie, psicologicamente provata dalla vita su quello sputo di terra angustiato dal vento e da tenebrose presenze?
Lucarelli incontra i giornalisti in conferenza stampa e, con estrema simpatia e umiltà, risponde a tutti. Anche ai detrattori.
 

 

Nel film appare evidente da subito una rinuncia volontaria al realismo; la narrazione è sempre sopra o sotto le righe, e il racconto diventa quasi un'enorme metafora.
 
Lucarelli: È una scelta figlia del romanzo, che aveva in sé già tutti questi elementi surreali. Mentre scrivevo il libro, non avevo certo in mente di fare un film; tuttavia, mi venivano spesso in mente immagini pittoriche, addirittura fumettistiche. Le ho inserite e, col senno di poi, mi sono servite moltissimo. La cosa che mi premeva raccontare era il dilemma della scelta: il commissario deve decidere se "compromettersi" oppure no. Parlo di un momento politico, il 1925 di Mussolini e del delitto Matteotti, in cui seguire la legalità istituzionale fino in fondo o far finta di niente e tenersi ciò che si aveva, per stare tranquilli era un bivio di fronte a cui ci si poteva trovare facilmente. È una cosa che avviene nella vita di ciascuno, avviene oggi nel nostro Paese, dove facciamo delle scelte di comodo piuttosto che tirare fuori il coraggio di prendere decisioni più rivoluzionarie, per sbaraccare tutto.
Tutti i personaggi si trovano in questa situazione. Quando ho iniziato a scrivere il romanzo, pensavo di dare un nome reale all'isola, tipo Ponza o Ventotene, in pieno spirito verista. Man mano che lo scrivevo, l'isola diventava pian piano una metafora, un luogo che non poteva esistere realmente, in cui il vento tira da tutte le parti, con inverno e primavera che si sovrappongono, talmente staccata dal resto del mondo che sembra seguire delle leggi proprie. Ha una dimensione surreale, fumettistica e pittorica. Ho disegnato, con l'aiuto dei miei collaboratori, essendo il film un'opera fortemente corale, queste immagini strane e contorte sullo schermo. Tutto è stato fatto in quest'ottica, a partire dalla scelta dell'isola, che in realtà non esiste ed è stata costruita da zero, grazie agli effetti speciali. Effetti speciali che, vi svelo un segreto, sono gli stessi che stanno creando il temporale fuori dall'Auditorium. In realtà oggi c'è il sole, siamo noi che stiamo facendo piovere!
 
C'è una rappresentazione dei fascisti piuttosto emblematica, sono quasi dei pazzi, degli imbecilli ridicoli.
 
Abbiamo fatto scelte precise, in particolare sulle figure di contorno. La Caienna, la colonia penale, è un simbolo che va oltre la storia: nel '25 non c'erano ancora i penitenziari come li mostriamo nel film, ma poco importa: volevo rappresentare il male assoluto. I personaggi della Caienna sono dei mostri, degli animali, volutamente sopra le righe. Abbiamo cercato delle caratteristiche esagerate, basti pensare all'ufficiale postale.
 
L'elemento dionisiaco è molto forte: abbiamo un tentativo di razionalizzazione di alcuni personaggi all'interno di un posto dominato da una forza panica e surreale.
 
Volevo mostrare le facce del diavolo. C'è il gruppo dell'inglese sta attorno al protagonista ed alla moglie, che ha una visione razionale del male, che può essere gestito. Dall'altra parte c'è il male inteso come violenza fisica, legata alla colonia penale fascista e a Mazarino. E poi c'è un altro diavolo ancora, l'isola, che è una forza panica totale e distruttiva. In questo contesto si inserisce la persona normale, il commissario.
 
Giampaolo, nel film sei immerso in questo contesto sopra le righe e tenti di normalizzare qualcosa che, evidentemente, non può essere normalizzato.
 
Il mio commissario si muove in questo mondo strano, cercando di darsi spiegazioni. La cosa interessante è che quest'uomo d'altri tempi è costretto a fare una scelta, a mettere da parte i propri interessi personali e perdere la possibilità di lasciare questo luogo di angoscia. Ce ne vorrebbero di più, di uomini così, che credono profondamente nello Stato… ma per la verità, ce ne sono sempre stati nella storia del nostro Paese.
 
Com'è stato il passaggio dalla scrittura alla regia? Solitamente, c'è un gap tra romanzo e film, che in questo caso è annullato dal fatto che chi ha concepito il libro l'ha anche trasposto cinematograficamente. Ci sono state delle suggestioni particolari?
 
Beh, mentre leggo un libro, ho in mente le facce dei personaggi e so che, sicuramente, sono diverse da quelle che aveva in mente lo scrittore. In questo caso è stato bello trovare una coincidenza, poter riproporre sullo schermo le facce che avevo in mente io. Mi sono trovato bene perché tutto il gruppo ha contribuito con grande entusiasmo all'opera. Abbiamo avuto numerose suggestioni visive, cose che io avevo visto o che avevo letto. Shutter Island, per esempio, è stato un modello importante per una scelta fondamentale: dovendo ambientare il film su un'isola, potevamo andare in un luogo e adattarlo, oppure inventarlo da zero. Shutter Island è stato girato per la maggior parte in un prato, quel faro meraviglioso con la scogliera è frutto di una ricostruzione da zero, per farla corrispondere all'immaginario del regista. Ovviamente è un paragone altissimo e non oso paragonarmi a Scorsese, ma l'idea di base è la stessa: la mia isola non esiste, quindi ho preferito costruirla daccapo.
 
Ci sono vari richiami nel film, ci si possono vedere molti riferimenti, per esempio al Commissario Lo Gatto. È una sintesi che comprende il tuo percorso tra vari media?
 
Certo, è una sintesi. Sempre più spesso, quando scrivo, mi capita di raccogliere stimoli che non c'entrano quasi niente; Lo Gatto mi ronzava in testa, l'idea dell'avamposto sperduto mi affascinava. Il modello del commissario, sia per il libro che per il film, era quello de La villeggiatura di Marco Leto, un film che avevo visto in tv da piccolo. L'interprete era Adolfo Celi, quindi qualcuno di completamente diverso dal commissario che ho poi creato, ma la scintilla di quella suggestione ha dato vita alla creazione del personaggio e della storia.
 
Dirigerendo un film tratto da un proprio libro non si rischia di dare per scontati alcuni passaggi che, per esigenze di copione, in sceneggiatura vengono omessi e quindi potrebbero risultare incomprensibili per chi non abbia letto il romanzo?
 
Può succedere, ma avevo dei contrappesi. In vent'anni di lavoro come scrittore, ho imparato a limare. Quando scrivi ti vengono in mente mille cose, ma per quanto sia doloroso a un certo punto tocca tagliare, mettere da parte. Quando impari questo, sei già a buon punto. Inoltre, non ho scritto il film da solo: con me hanno lavorato Giampiero Rigosi e Michele Cogo, e quindi con loro ho smontato e ricostruito il libro. La sceneggiatura poi non è una cosa blindata, ricevi consigli e contributi da tutti, dagli attori ad esempio. Se sei sufficientemente aperto, e io penso di esserlo grazie alla scuola della letteratura e perché non mi sento così forte da poter imporre il mio parere in modo assoluto, questi errori cerchi di non farli e di ascoltare tutti. Quando fu realizzato Il grande sonno, gli sceneggiatori andarono dallo scrittore, Chandler, a chiedergli perché nel romanzo venisse trovato un uomo morto in una macchina di cui, in seguito, non si faceva più menzione. Chandler rispose che non lo ricordava e che probabilmente gli era scappato, era un errore. Eppure, il libro fila perfettamente. Sull'isola dell'angelo caduto, ogni cosa segue leggi proprie, e quindi alla fine tutto torna sempre.
 

A chi, infine, lo accusa di non aver saputo gestire i pretesi riferimenti alti del film, realizzando un po' un pasticcio e perdendosi in mezzo a una confusione di suggestioni, Lucarelli replica candidamente:

L'importante, per me, è che il film è venuto esattamente come lo volevo. Se ci sono troppe cose e il risultato è pasticciato, la colpa è mia. Tutto sommato, calcolando che il romanzo è mio, la sceneggiatura è mia ed il film è mio, devo dire che non ho fatto grossi danni se non a me stesso!