25 anni fa un giovane e promettente attore, Matthew Modine, veniva scelto dal più autoriale regista del mondo, Stanley Kubrick, per un nuovo film sulla guerra del Vietnam, Full Metal Jacket. Oggi, l’esperienza dell’attore americano rivive parallelamente in FMJ25, una mostra fotografica allestita all’Auditorium Parco della Musica che mostra gli scatti realizzati da Modine sul set di Kubrick, nel diario da lui tenuto durante le riprese (disponibile come applicazione per iPad) e nel documentario Full Metal Joker, diretto da Emiliano Montanari, presentato ieri al Festival del Cinema di Roma. Documentario che mette bene in luce i lati nascosti dell’attore hollywoodiano, in grado di maneggiare sapientemente vari linguaggi come, appunto, la fotografia.

“Per me è un piacere tornare in Italia, che è uno dei paesi più importanti del mondo, avete un popolo grandioso” dice Modine. “Si parla sempre molto dell’epoca d’oro del cinema italiano e hollywoodiano, e comprendere il passato ci aiuta certamente a comprendere chi siamo oggi. Non dobbiamo però perdere di vista i giovani autori di oggi, che sono il futuro e che possono contribuire a definire cos’è il mondo adesso. In questo senso, sono onorato di far parte della giuria selezionata da Marco Müller per scoprire chi saranno i nuovi cineasti che definiranno la storia del cinema.”

Rispondendo alle numerose domande sulla sua esperienza personale con Stanley Kubrick, aggiunge: “Lavorare con Stanley per ben due anni è stato come frequentare la migliore scuola di cinema del mondo. Credo che il motivo per cui ha lasciato New York per Los Angeles, e poi Los Angeles per l’Inghilterra fosse la necessità che aveva, come ogni artista, di trovare la propria voce, la propria poetica, il proprio modo di raccontare la sua storia. A Londra, Stanley ha trovato la propria voce. Mentre stavo partendo per il Giappone per promuovere Full Metal Jacket, mi disse: “Matthew, tu sarai la mia voce”. Questo mi ha creato un enorme senso di responsabilità, ho fatto molta attenzione alle cose che dicevo e non ho mai parlato con leggerezza di quell’esperienza. Dicono che ogni film di Kubrick sia spietato, brutale: beh, è come uno specchio. Lo metti davanti alla faccia e vedi l’età, le rughe, i brufoli. I suoi film sono uno specchio fedele della società, diverso dall’immagine di Hollywood, che è sempre bella, ordinata e pulita. È stato un grande onore lavorare ad un film che ha resistito alla polvere del tempo. È una storia sulla distruzione, sulla disumanizzazione dei giovani che è pertinente oggi come lo era venticinque anni fa, e se torniamo indietro fino a Spartacus, dove i giovani vengono spinti a combattere l’uno contro l’altro, vediamo come la tematica centrale di Full Metal Jacket fosse da sempre cara a Kubrick.”

Montanari, regista di Full Metal Joker, descrive così la genesi della sua opera: “Io e Matthew ci siamo incontrati l’anno scorso al Festival di Berlino e ci siamo detti “perché non approfittare del venticinquennale di Full Metal Jacket per omaggiarlo?”. E del proprio documentario dedicato a Modine/Joker dice: “è un personaggio che incarna una mutazione della società in senso mediatico, entra nella guerra del Vietnam come se entrasse nella casa del Grande Fratello. È già un personaggio da reality, un reality di guerra.”

Modine riflette inoltre sulla situazione attuale dell’America: “Mentre lavoravo a teatro su Anna dei Miracoli, incentrato su una bambina sorda e cieca e sul modo che la sua insegnante ha di comunicare con lei, ho riflettuto molto sulla politica guerrafondaia degli USA. Nella vita, dobbiamo costantemente trovare modi di comunicare gli uni con gli altri, altrimenti finiamo per ricorrere alla violenza per farci ascoltare. In Anna dei Miracoli, la bambina è selvatica, viene punita e legata, e questo mi ha richiamato alla mente l’atteggiamento dell’America nei confronti del mondo arabo e del Medio Oriente. Se ti trovi davanti qualcuno che non parla la tua lingua e, che quindi, non ti comprende, è facile che la situazione sfoci in un conflitto. Gli Americani hanno paura degli arabi, ciò ci riporta a Stanley Kubrick, all’idea della xenofobia, della paura del diverso e della brutalità: in 2001: Odissea nello Spazio vediamo l’uomo primitivo scoprire la violenza grazie al monolite ed usare un osso per uccidere un suo simile. Il tempo che l’umanità ha trascorso sul pianeta è un istante rispetto all’età delle montagne, la vita dell’uomo è un attimo fuggente. In un secondo, come mostrato da Kubrick, passiamo dall’uomo preistorico alla navicella spaziale. Se non impariamo ad usare la nostra mente per abbandonare l’aggressività, continueremo a comportarci sempre come uomini primitivi. Immaginate se potessimo comunicare, trovare il modo di parlare con il nemico. Sono questi i passi che dobbiamo compiere come esseri umani per risolvere i nostri problemi. Dobbiamo voltare le spalle al nostro passato di sangue, altrimenti non c’è speranza per noi, come in Il Dottor Stranamore