La nuova Settimana della Critica al terzo anno di gestione centra l’impresa non facile di aprire il suo festival con un film decisamente più sorprendente e memorabile di Il primo uomo. Se l’apertura della Selezione Ufficiale rimesta nella convenzionalità e non riesce mai ad essere il grande biopic moderno e complesso che vorrebbe, Tumbbad è molto di più di quel che pensa di essere.

Storia horror dalle striature fiabesche, prende da Guillermo Del Toro pochissimo, quello che basta, la sua idea di mitologia fiabesca moderna tra storia e tradizione e l’idea perfetta di partire dai luoghi per generare storie e personaggi, poi fa tutto da sé, modifica la struttura delle fiabe per adattarla bene al cinema tenendone ferma la natura morale. Soprattutto Tumbbad crea. Crea mostri, crea mitologie (a partire da quelle esistenti), prende luoghi esistenti e gli crea intorno una nuova realtà modificandoli senza toccarli e non ha bisogno mai di ripetere una cosa due volte (ad esempio basterà un’inquadratura fugace per capire che fine abbia fatto la donna di servizio scacciata a metà film, aprendo squarci immensi su ciò che non ci è stato raccontato).

In un mondo rassegnato alla pioggia in cui ci si bagna anche in casa, anche se si è ricchi, Tumbbad fa bella mostra della qualità migliore per un fantasy/horror, ovvero la capacità di immaginare e creare la propria mitologia con maschere, trucchi, luci e soprattutto luoghi, luoghi veri con demoni nel loro ventre (letteralmente). Storia di avidità, di qualcuno che trova qualcosa di buono ma esagera nel volerlo fino alle inevitabili conseguenze Tumbbad sa bene come si comporta il cinema occidentale e non rifiuta per questo di essere indiano.

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Con tre registi (uno principale, uno co-regista e uno regista creativo) e un attore-produttore, la produzione di questo film viaggia spedita prima mostrando due fratelli in una baracca lontana da tutto, barcamenarsi con una madre e una “nonna” deforme, mostruosa, da sfamare come una creatura mitologica, da temere moltissimo e tenere a bada con una frase capace di bloccarla. Poi con molta calma e una capacità non comune di raccontare, lungo tutto il film svela a poco a poco cosa le sia successo, finendo di spiegarlo solo alla fine.

Ci sono dei soldi in ballo, monete d’oro che vengono da qualche parte chiaramente pericolosa (che lo sia lo dice tutto a partire dall’ottima colonna sonora). Con un salto di 15 anni vediamo uno dei due fratelli, adulto, pronto a tentare l’impresa con un’epica inversamente proporzionale al posto in cui si trova. E qui inizia davvero un film che sorprende con passo regolare ogni 15 minuti, scoprendo la sua mitologia e svelando il contrasto tra avidità e vita che sta al suo cuore “L’avidità è la mia unica qualità” dirà lui dimostrando gran carattere (e gran baffi!).

Con la tenacia del cinema d’azione asiatico, la prestanza di quello occidentale e un fascino che è solo suo, Sohum Shah è l’eroe di cui questo film ha bisogno: bastardo, furbo, cinico e duro. Mai convenzionale come quelli cui siamo abituati, mai davvero positivo, eppure animato da una qualità eroica indubbia, maschera benissimo il progressivo svuotarsi del suo personaggio, sempre meno padrone della sua vita e delle sue decisioni, vittima di qualsiasi vizio.

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