Strana la carriera di Jean-Jacques Annaud, uno che passa da un film senza dialoghi, coraggioso più di quanto spesso è possibile immaginare, come L’Orso, a storie oltremodo romanzate come il suo ultimo Il principe del deserto.

I registi però sono così, spesso imprevedibili, e Annaud è uno che ha sempre amato fare di tutto, da videoclip e pubblicità (con cui iniziò la sua carriera) ai grandi racconti popolari. Non ha fatto molti film, solo dodici in 35 anni di carriera, ma è comunque riuscito a legare il proprio nome a grandi successi commerciali come Il nome della rosa, Sette Anni in Tibet e Il nemico alle porte. BadTaste.it lo incontra all’hotel Mamounia Marrakech durante il locale Festival del Cinema dove ha appena presentato Il principe del deserto.
 

Il suo cinema va dal Tibet alla battaglia di Stalingrado, ora anche il Medio Oriente. Cosa deve avere una storia per convincerla a girare un film?
Prima di tutto, deve sapere portare lo spettatore fuori dalla sua vita quotidiana. Concordo con quando dice che lo spettatore che entra al cinema si aspetta di essere intrattenuto e così, ancora prima dei luoghi, mi interessa il canovaccio di una trama. Penso poi che ci sono così tante storie al mondo che meritano di essere raccontate che limitarsi agli Stati uniti o all’Europa sia piuttosto superficiale. E’ logico che anche quando racconto storie lontane lo faccia con la sensibilità di un occidentale, non posso tradire me stesso, ma la forza delle immagini a volte travalica le culture: l’amore, l’odio, l’orgoglio, la vendetta e tanti altri sentimenti, nel loro nocciolo originale più duro, sono gli stessi ovunque.

Come mai la scelta di Antonio Banderas, Freida Pinto e Mark Strong, ruoli e voci che non hanno nulla a che fare con il mondo arabo?
In tutti e tre i casi parliamo di attori che hanno tratti somatici molto simili a quelli di tanti arabi. Banderas è spagnolo e la dominazione araba in Iberia è stata tanto lunga che ha caratterizzato anche molti visi, compreso il suo. Mark Strong ha parenti italiani, Freida Pinto, come tutti gli indiani, è un mix di così tante culture e colori che alla fine può tranquillamente sembrare una donna di quelle zone. Sono poi tre attori eccezionali e questa ho pensato che fosse la priorità da rispettare.

Alcuni critici in Francia dicono che il suo cinema degli inizi, coraggioso e indipendente, sia stato influenzato negativamente dai soldi di Hollywood. E’ una critica che ha mai preso in considerazione?
Negli Stati Uniti ho sempre avuto la massima libertà e avere budget più consistenti a disposizione ha significato potere raccontare storie che in altri modi non avrei potuto realizzare. Auguro a tutti i cineasti di potere avere la stessa indipendenza che ho avuto io nella mia carriera.  

Lei è uno dei pochi grandi registi al mondo ad avere un proprio sito personale con tanto di biografia, news ed elenco dei lavori. Come mai questa scelta?
Ho iniziato soprattutto per risparmiare tempo. Mi capita spesso di dare lezioni di cinema, sia a ragazzini che a universitari e spesso mi venivano fatte le stesse domande o richieste. Pensai che con un sito avrei raccolto tanti pensieri e risposte già date senza dovere ogni volta riformulare i concetti. Ma non è tutto. Ho sempre amato viaggiare, e non solo per i posti, ma per le persone che uno ha la fortuna di incontrare. Al giorno d’oggi essere su internet significa esistere più di quanto un giorno poteva essere per la televisione. Mi fa piacere che ovunque io vada ci sia chi abbia la possibilità di conoscere facilmente cosa ho fatto e quale sia la linea che ha legato tutti i miei lavori. Mi sento così più vicino al pubblico, cerco di rispondere sempre a tutte le mail e sono orgoglioso dei bei messaggu che ho riscontrato nel corso del tempo attraverso il sito. Il film per cui ricevo più domande è L’orso, ma c’è anche tanta gente che mi cheide alcune spiegazioni su Il nome della rosa…