Ok. Il film non è piaciuto a nessuno della redazione di BadTaste.it ma Abel Ferrara continuiamo ad amarlo per la passione e l’onesta intellettuale con cui accetta il confronto. E per un amore viscerale nei confronti di Pier Paolo Pasolini. Ci sarebbe piaciuto che il suo Pasolini film fosse in un certo senso più innamorato di Pasolini e più passionale. Proprio come questo divertente incontro stampa.

Quando sei entrato in contatto per la prima volta con il lavoro di Pasolini?
Vidi Il Decameron a New York nel 1971 quando uscì al cinema. Fu un buon primo assaggio di Pasolini. Un buono inizio.

Perché?
Perché c’erano Ninetto Davoli, Franco Citti e pensai “Wowwwww”… questo è il mio film! Ero un giovane regista italoamericano e vedere un lavoro del genere per chi come noi era cresciuto a New York fu importante.  Non sapevo niente di loro, di quel gruppo di lavoro, ma percepivo il loro potere. Studiavo cinema alla SUNY Purchase School all’epoca e quando andavamo al cinema lo facevamo per analizzare il lavoro di grandi artisti come Pasolini. E poi… al massimo della sua creatività… è morto. Forse è stato quello il primo momento in cui ho iniziato a pensare di fare un film su di lui. Devo ammetterlo. E quindi… ci ho messo solo 40 anni a farlo. Sono stato veloce (ride, N.d.R.).

Il momento più bello di questa esperienza?
Lavorare con persone che l’hanno conosciuto. Capire quanto era veramente bello come essere umano. Quanto era compassionevole. Non ho mai incontrato nessuno, nemmeno Pelosi, che mi ha mai parlato male di lui. Era un bravo ragazzo. Veramente.

Era un buono e il mondo attorno a lui era violento?
Era la realtà. C’era una violenza creativa… anche dentro di lui. Lui era violento per me. Ma più con se stesso in un certo senso. Per lui c’era qualcosa… un senso di colpa. A volte penso che lui credesse che i fascisti proliferassero per colpa sua, che la Democrazia Cristiana controllasse tutto per colpa sua, che anche il capitalismo… fosse colpa sua! Sono cresciuto con questo artista al 100%. Mi considero parte del suo esercito. Mi ha insegnato la libertà di espressione e l’idea che un singolo può fare la differenza nel mondo. Sono idee fottutamente potenti.

Che idea ti sei fatto di lui?
Era sempre un passo avanti a se stesso. Sempre totalmente originale. Non era mai bloccato su una questione ma variabile e sempre alla ricerca di qualcosa di diverso.

Nel film mi sembra che ci siano due Pasolini: quello che era diventato per la società e quello che sarebbe diventato con le sue ultime opere artistiche che tu metti in scena. Sei d’accordo?
Sì. Era come un diamante. Era un poeta, un giornalista rivoluzionario, un aperto omosessuale, un figlio devoto che viveva con la madre. Lui riusciva a trovare un equilibrio. Io non so come facesse. Lui riusciva a dividere la giornata. Era puntuale e sempre molto produttivo. Aveva già scritto parecchie pagine di Petrolio ed era pronto a fare un nuovo film. Quest’uomo era nel pieno delle sue capacità quando è morto. Era uno degli eroi di un cinema italiano che riusciva ad attirare capitali esteri quando e come voleva. Sai qual è l’ironia? Che tutto per il vostro cinema andò a puttane… con la morte di Pasolini. Se ci pensi è così.

A Dafoe cosa hai suggerito?
Niente. Penso che lui ce l’abbia fatta. Lui aveva il suo compito e il mio. Non potevo dirgli come recitare. Gli ho dato spazio e basta.

Interessante la coppia Riccardo Scamarcio e Ninetto Davoli che metti in scena immaginando come potesse essere Porno-Teo-Kolossal. Come ti sei trovato a lavorare con Davoli?
Ninetto è fondamentale. In lui trovi Pasolini. Nella faccia di Ninetto… c’è Pasolini. Altro che libri o filmati o articoli. Stronzate. Ninetto era il suo compagno, miglior amico e sapeva tutto. Lui era un ragazzo di strada quando conobbe Pasolini ma nel 1975 non era più un ragazzo di strada e certamente non lo è più adesso.

Cosa gli hai chiesto?
Tutto! Lo abbiamo torturato ragazzi! Gli abbiamo rubato i mobili! Abbiamo preso oggetti e cose che erano appartenute a Pasolini. Abbiamo aperto gli armadi di Ninetto e abbiamo trovato i vestiti di Pasolini. Graziella Chiarcossi (storica assistente di Pasolini nel film interpretata da Giada Colagrande, N.d.R.) ci ha dato persino l’agenda per l’inquadratura finale. Graziella è sempre stata con noi. Abbiamo preso molte fotografie. E’ tutto ancora lì. Quaranta anni sono ieri. Non lo potresti mai fare negli Stati Uniti perché tutto cambia molto velocemente. A San Lorenzo c’è ancora il ristorante “Il Pommidoro” dove mangiò con Pelosi quell’ultima sera.

Nel film non sembri molto interessato alle dinamiche della sua morte, considerate da alcuni in Italia estremamente misteriose. Perché?
Non ne abbiamo mai troppo parlato anche con Ninetto. A me non interessava sapere come era morto Pasolini. Ho parlato con Pelosi ma non glielo ho nemmeno chiesto. Non ero interessato al “giallo” della morte di Pasolini. Abbiamo un dramma. Doveva morire sulla spiaggia. Basta. Non lo puoi più riportare in vita e allora non è più importante sapere come è morto. Lasciamo stare. Ora è troppo tardi. Non capisco proprio questa ossessione legata alle ragioni della sua morte. Cia, fascisti, non mi interessa.
Ma voi veramente pensate che la Cia abbia potuto voler uccidere un regista? Andiamo ragazzi.

Quindi pensi sia stata una “notte sbagliata” come dice anche Davoli?
Era un periodo violento. Poteva succedere. Io non riesco a pensare che quei balordi che lo hanno ucciso con Pelosi fossero stati lì portati da qualcuno.

Qual è la scena o inquadratura che ti piace di più del tuo film?
Ce ne sono tante. La scena del pranzo a casa, le statue, la luce di Roma… è una luce speciale. Mi piacciono le inquadrature dell’architettura fascista dell’Eur dove viveva quegli anni. Quando giravo il film ero colpito dal fatto che vivesse in quel quartiere fascista, in un vicinato borghese. Questo mi aveva colpito molto. Era un uomo totalmente contraddittorio. Uno vede l’Eur e pensa: “E’ l’ultimo posto del mondo dove si possa fare poesia”. Così vicino alla Cristoforo Colombo. Ma perché viveva lì? Era un mistero.

Fellini amava molto quel quartiere e anche Sergio Leone viveva lì…
Ma perché?

C’è chi dice che l’Eur sembri un quadro di De Chirico. Uno spazio metafisico di architettura neoclassica affascinante soprattutto la sera quando non c’è mai nessuno per strada perché è un quartiere di uffici.
E’ una sorta di zona intermedia tra Termini, dove cercava ragazzi con cui passare la notte e l’Idroscalo, dove spesso amava consumare quelle serate.

Nel film c’è una lunga intervista con Furio Colombo interpretato da Francesco Siciliano. Hai incontrato il vero Furio Colombo?
Sì, sì. Ricorda quell’intervista come fosse ieri. Parola per parola. Persona squisita.

Come va l’edizione italiana con Fabrizio Gifuni al doppiaggio. Hai sentito già il suo lavoro?
L’ho sentito? Lo so a memoria. Fabrizio… ce l’ha fatta. E’ un grande risultato per me. Gifuni è un grande attore. Si è fatto il culo. Non era facile.

Com’era la tua New York in quel fatidico 1975?
I poliziotti scioperarono. La città era sulle ginocchia. Scorsese girò Taxi Driver da giugno a settembre. Gran periodo. Magico.

A Pasolini sarebbe piaciuto il tuo film?
Ma che ne so? Abbiamo gusti diversi. Lui detestò Ultimo tango a Parigi mentre io adoro Ultimo tanto a Parigi. Ma come si possono prevedere i gusti di Pasolini? Era un comunista ed era dalla parte dei poliziotti, era un omosessuale contro l’aborto, era imprevedibile. Uno spirito totalmente libero.

E il tuo futuro?
Spero che farò film sempre migliori, anche più piccoli rispetto a questo.

Rimani da noi in Italia?
Assolutamente sì. Sono ottimista e voglio stare qui con voi. Potrei stare ovunque… ma voglio stare in Italia. E sono già pronto per nuovi film.