La recensione di Bardo, in concorso al Festival di Venezia

Il Messico di Bardo non ha niente a che fare con quello di Amores Perros. A dividere i due film di Alejandro G. Iñárritu non sono però solo i ventidue anni e gli ingenti premi Oscar: Bardo è infatti, diversamente dal primo, un film sognante, irriverente in modo malinconico: un’autobiografia – per niente celata – di Iñárritu stesso, scritta con un desiderio estremo di onirismo e ironia (quello di Birdman) e con la voglia evidente di scusare sé stesso per avere abbandonato la sua patria natìa. Mescolando quindi ai fantasmi del colonialismo statunitense il viaggio mentale, delirante, del fittizio giornalista Silverio Gama (Daniel Giménez Cacho) vediamo scorrerci davanti con una pomposità esagerata la vita privata e professionale di questo mentre Iñárritu cerca di farla diventare a tutti i costi la metafora perfetta di un’intera situazione politica, storica, culturale.

Il risultato è caotico, esageratamente dispersivo:...